Una breve nota apparsa su un sito specializzato in problematiche scolastiche offre l’occasione per affrontare una questione legata alla professionalità dei docenti italiani: la formazione in servizio.
Molto si è dibattuto (e la querelle è ancora aperta) sulla formazione iniziale dei docenti. La problematica è certamente molto seria e va analizzata senza lasciarsi irretire in posizioni politico-ideologiche. Ma, come ogni professione richiede in un mondo che viaggia molto in fretta, una formazione iniziale getta le fondamenta per “costruire” una professionalità che, in quanto tale, sente il bisogno di approfondire e padroneggiare sempre più le conoscenze e le competenze che connotano il proprio lavoro.
A sorpresa, uno studio sullo “Sviluppo professionale degli insegnanti: l’Europa a confronto con il resto del mondo”, presentato pochi giorni fa dall’OCSE e dalla Commissione Europea, ha evidenziato che i docenti italiani chiedono di formarsi di più a scuola e sulla scuola. Infatti il 90% degli insegnanti italiani prende parte ad iniziative di formazione nella scuola e, di questi, il 56,4% chiede di aumentare ancor più le occasioni di formazione. Il dato si allinea a quello emerso a livello mondiale (54,8%), scavalcando il bisogno di formazione emerso nei paesi europei (49,2%).
È interessante scoprire dai dati dello studio citato che l’oggetto più visitato nella formazione sono stati i processi di riforma. L’intenzione è di per sé lodevole e condivisibile ma pone un interrogativo. Se la scuola non mutasse attraverso la legislazione, l’insegnante si sentirebbe “adeguato” al proprio ruolo e alla propria funzione? Chi scrive ha per decenni proposto e tenuto alle scuole formazione ed “aggiornamento” e può dichiarare che i docenti chiedono di sviluppare conoscenze e competenze anche quando non c’è l’urgenza di rispondere o adeguare il proprio agire ad una nuova norma. E ciò va ad encomio dei docenti
Ma, allora, cos’è che non funziona nel nostro sistema, considerato che, al di là dei numeri riportati, molti docenti si percepiscono appesantiti nel loro lavoro e a volte inadeguati? Si possono evidenziare due condizioni che rendono problematici i processi di formazione.
In primo luogo i singoli istituti scolastici possono contare su finanziamenti limitati e risicati da destinare alla formazione. Ciò incide non solo sulla quantità della formazione ma anche sulla qualità. I progetti di formazione sono costretti e dimagriti dalle poche finanze a disposizione: rischiano a volte di strutturarsi in 3-4 lezioni/relazioni di esperti con aggiunta di qualche lavoro di gruppo “autogestito” e senza oneri pecuniari. In alcuni casi, e sono i più produttivi, le scuole si consorziano “in rete” ed ampliano il tempo di formazione nonché le modalità che contemplano anche il “confronto” con altri vissuti culturali e professionali.
Inoltre, sempre nello studio citato, i docenti hanno lamentato la coincidenza della formazione con l’orario di lavoro. Le attività di formazione organizzate e promosse da Enti pubblici ed Associazioni professionali coincidono spesso con l’orario di lezione. I docenti si vedono costretti a chiedere permessi al capo di Istituto che a volte non vuole o non può concedere. (Alcuni docenti approfittano del loro giorno libero per frequentare determinati corsi). Quando la formazione è strutturata nell’istituzione scolastica spesso viene posizionata al termine delle ore di lezione. Non è necessario sottolineare la fatica di prestare ascolto attivo dopo magari otto ore di lavoro nella scuola. A tale proposito, senza temere pensieri utopici, sarebbe opportuno che si individuassero modalità adeguate ad una formazione in servizio, come accade in alcuni paesi europei. Perché non pensare a consistenti frazioni di tempo professionale destinato alla formazione? Non sempre, non ritualisticamente. Mesi sabbatici? Settimane sabbatiche? Con degli stipendi congrui si potrebbe chiedere ai docenti più tempo a scuola: a scuola, non nella classe.
C’è un ulteriore elemento da considerare che riguarda il “come” della formazione: i contenuti e la metodologia. I contenuti possono essere i più vari: spesso sono determinati da norme e circolari che modificano l’assetto scolastico. Ma c’è di più e i docenti chiedono di più.
La formazione non può ridursi a trovare soluzioni per riformismi dettati dalla normativa, né limitarsi ad acquisizione di tecnicismi senza che questi siano significati nella loro efficacia formativa ed educativa. Ciclicamente i docenti sono stati esposti a nuove tecniche, nuove “didattiche” che sono vissute una stagione. Nuove tecniche hanno senso e diventano funzionali se assumono una dimensione strumentale ad un’efficacia del proprio agire professionale, efficacia che va testata, prima ancora che sul campo, in relazione ad obiettivi e finalità che si reputano fondativi della propria funzione docente. A tal proposito sarebbe utile ed interessante che gli insegnanti avessero occasione di conoscenza e riflessione sulla mutata identità degli “utenti”, oltre che sulle caratteristiche costitutive di una determinata fascia di età (caratteristiche culturali, di apprendimento, di identità, di sviluppo armonico della persona; senza cadere nello psicologismo).
I momenti di formazione devono altresì offrire ai docenti situazioni di apprendimento significativo che accade laddove la metodologia della formazione consente di ancorare le nuove “conoscenze” a quelle già possedute ed alle proprie esperienze sul campo. In tal senso si devono strutturare possibilità di riflessione sulla propria azione didattica e di revisione/risignificazione delle proprie competenze professionali.
Un esempio per tutti. L’introduzione nella scuola della valutazione in decimi può aver offerto l’estro per proporre ai docenti complicate alchimie per far quadrare i conti della trasformazione dei giudizi espressi in scala nominale in numeri, oppure. Oppure tale cambiamento di strumenti può essere sfociato – ed è accaduto – in momenti di formazione che hanno richiamato e ri-significato la funzione valutativa dei docenti e della scuola tutta.
Da ultimo, ma non ultimo. Momenti di formazione strutturati secondo modalità che vedono protagonisti attivi i docenti (vedi processi di ricerca-azione, dialoghi interattivi, valutazione di esperienze professionali) consentirebbero ai docenti di far tesoro di confronti, conferme, del proprio agire e di sviluppare una competenza professionale a volte sottovalutata quale la competenza comunicativo-relazionale tra pari (docente/docente), quindi l’adozione di uno stile aperto e collaborativo nei confronti dei colleghi e il distanziamento dal proprio vissuto professionale per riflettere, capire, rielaborare. Non sempre imparare significa apprendere nuove conoscenze o comportamenti, è altrettanto utile ed arricchente riflettere sull’esperienza per darle un senso codificato, anche attraverso il confronto aperto e leale.
Anche questa convinzione può contribuire alla costruzione di un long life learning.