“Mamma, da noi c’è una diga?”
Sollevi la testa dal compito e mi butti la domanda con un gesto degli occhi; parole con un preciso peso specifico, mi raggiungono la zona d’allarme del cervello e allora anch’io alzo lo sguardo e ti aggancio agli occhi. La maestra ha parlato del Vajont a scuola, di quei 50 anni tra noi e il 9 ottobre, la commemorazione di una tragedia storica, un “disastro industriale” come dicono oggi.
Da noi ci sono dighe, amore mio, penso sospirando, viviamo in una regione alpina; e bacini d’acque, e tuo zio da ragazzo ha soccorso nel fango di Stava. La tua paura è piccola e puntuta, è una paura di bambino che ha bisogno che sua madre gli racconti una storia e con quelle parole gli lisci il pelo, lo riporti nella terra del conforto. Noi grandi abbiamo ascoltato tante volte quella storia, ci sono state puntate televisive, molte anche in questi giorni, testimonianze, lapidi, opere teatrali. Questo anniversario è come affondare la vanga e rivoltare una zolla di terra per ritrovare sotto ancora tutto un brulicare di vermi e di vita.
Ho rivisto delle foto famose in bianco e nero, le primissime sul luogo del dolore, chi le ha scattate era un giovane di appena 25 anni, Vittorio Russo che ha confessato di aver selezionato le scene più accettabili, non se l’era sentita di immortalare i cadaveri gonfi d’acqua disseminati nudi a centinaia; il cuore pieno di rispetto e di sgomento. Erano in fondo tutti ragazzi anche i soccorritori, alpini di Belluno, si sono trovati a tirare fuori a mani nude la loro stessa gente, nonni, genitori, fidanzate, bocche piene di fango che avrebbero parlato con il loro uguale accento: veneto e povero.
Drappelli di scout, volonterosi, a costruire bare di legno grezzo, la croce rossa impegnata a dare più nomi possibili affidandosi agli indizi affettuosi dei parenti, non aiutava allora il dna.
I racconti di quelli che hanno visto i morti sugli alberi, di quelli che non hanno mai avuto un corpo da seppellire, delle famiglie sparite intere; il numero dei seppelliti senza nome, il totale che lo sa solo chi ha incontrato le anime.
La desolazione gialla dell’alba del 10 ottobre spicca nei filmati e nelle facce di tutti quelli che ci sono stati, la manata potente dell’acqua ha tagliato le case come il burro un coltello e spianato la vallata del Piave, ha schiaffeggiato tutta Italia. Anche noi che stiamo ricordando. Ma è stata una mano piena di male.
Sul terremoto i friulani hanno ricostruito, pochi anni e chilometri in là; anche Longarone e i paesi sconvolti (Erto, Casso, Pirago, Maè, Rivalta, Villanova, Faè, Codissago, Castellavazzo) sono stati rimessi in piedi; ma la gente no. Al contrario di chi si è salvato dalla tragedia della terra, questi uomini travolti dall’acqua restano monchi, ancora deformati dalla cicatrice di una ferita infetta. Si avverte chiaro un aleggiare di rabbia, di umiliazione, di rimpianto. Di scuse mai porte, ingiustizie umane.
La diga ha retto; sta lassù esposta come un monito pieno del monte Toc, che ha rifatto alberi e erba.
Perché il Vajont è pieno di tutte le contraddizioni umane, il successo, lo sbaglio, l’orgoglio, la colpa consapevole.
La diga; architettura perfetta, tanto che il responsabile delle costruzioni idrauliche Alberico Biadene (poi condannato) si preoccupò di rassicurare subito con un cablogramma il direttore dei lavori Mario Pancini (poi suicidatosi) che la diga appunto aveva retto l’impatto nonostante l’enorme frana: era fatta bene, benissimo.
La gente aveva bisogno dell’energia elettrica, l’Italia era in ripresa, risollevata dalla guerra. La tecnica ingegneristica italiana era all’avanguardia.
La tecnica in sé però non basta: non è onnipotente; ma nemmeno colpevole.
L’intenzione, lo scopo, lodevole; fulcro di sviluppo della valle del Piave. Mentre si è rivelata il suo disastro. Il monte è franato. Lo portava nel nome. L’uomo lo sapeva e credeva di poterlo contenere, reggere, appunto. Ma la natura è potente, tanto: 50 milioni di metri cubi d’acqua si sono scatenati sulla vallata, la potenza energetica di due bombe atomiche. Questo non era previsto, la superbia di onniscienza è stata annichilita.
La diga avrebbe retto: non serve scatenare il panico, evacuare. Questa la grave colpa, il peccato mortale: che ha ucciso migliaia di poveri cristi innocenti.
Il silenzio, così italiano, ha ucciso, prima dell’acqua, prima della tecnica.
L’orgoglioso silenzio, che non è mai stato davvero processato, condannato. Confessato.
Il silenzio che esiste in quanto inconfessato.
Guardando i filmati dell’epoca, la cataste di nudi morti ancora più crudi in bianco e nero, per un attimo, mi sono venute in mente le foto dei campi di sterminio, quelle delle foibe; come tutte le stragi del mondo, tutte le fosse comuni, in tutti i continenti: il male che sacrifica donne, bambini, vecchi, che toglie loro i nomi. Morti annegati, adesso, ancora, nelle acque di un mare più caldo, a Lampedusa.
Restano come monito solo miseri resti dilavati, espiazione di peccati più grandi di loro, estranei a loro, restano come prove non più viventi ma terribilmente reali di ogni sopraffazione, sopruso, dominio. Sull’uomo e sulla sua natura, sulla Natura e sulla Storia.
Guardo mio figlio che ha finito il compito e so che parlerò: non gli racconterò la vicenda, né l’emozione, lo faranno altri. L’emozione del racconto può mettere in secondo piano la verità, il giudizio. Gli dovrò dire di chi ha costruito, pensando di essere più forte, una casa-diga sulla sabbia.
Di chi non ha avvisato, si è nascosto dentro la presunzione e l’orgoglio. Degli innocenti.
Sì, anche noi abbiamo una diga sopra la testa, ognuno di noi.
Dobbiamo saperlo, esserne coscienti.
Scegliere se stare o andare, scegliere come e perché vivere. O morire. O tacere.
Soprattutto, a chi credere.