Per capire di più Ermanno Olmi, scomparso ieri all’età di 86 anni, oltre ovviamente a rivedere i suoi film, consiglio la lettura del libro Il primo sguardo, conversazioni con il regista a cura di Marco Manzoni, pubblicate nel 2015 per Bompiani. “C’è un istante preciso — scrive il curatore — che per Ermanno Olmi segna la sua autentica nascita e per il quale prova gratitudine. E’ il primo sguardo che si scambiarono sua madre e suo padre quando si innamorarono l’uno dell’altra”. In fondo è questo che un regista ci regala, se è, come fu Olmi, un autore, un poeta: uno sguardo sulla realtà, che in parte ci appartiene, perché il suo mondo è anche il nostro, in parte ci è estraneo, ma ci affascina, perché è un punto di vista più profondo. Ed è davvero significativo che Olmi stesso confessi che il suo sguardo nasce da quello dei suoi genitori. Come a dire che si impara sempre da altri.
Olmi ha conservato per tutta la sua opera un orizzonte aperto, di stupore, come quello dei semplici a cui tante sue opere sono dedicate. Naturalmente semplicità non significa facilità. I suoi film chiedono attenzione e non sempre il grande pubblico ne ha. Prodotti anche commercialmente difficili, dunque. E dal punto di vista formale non tutti di eguale valore. Così, se la critica ha accolto con entusiasmo “L’albero degli zoccoli”, pochi mesi dopo ha snobbato “Cammina Cammina”. E se pienamente riuscita è la trasposizione cinematografica del racconto “La leggenda del santo bevitore”, di J. Roth, più problematica è la messa in scena de “Il segreto del bosco vecchio”, dalla novella di Buzzati (forse è anche questione dei protagonisti: a disagio Paolo Villaggio nel secondo, perfetto Rutger Hauer nel primo).
Ma in genere Olmi ha goduto di stima unanime. Lo dimostrano i ricordi nel giorno della sua scomparsa, così unanimemente positivi. Era profondamente cattolico, ma si è fatto apprezzare in un mondo del cinema non sempre tenero verso gli autori di fede. Ha saputo parlare a tutti perché scevro di moralismi, lontano dagli schemi del proselitismo, soprattutto per il suo grande rigore. Ha applicato la medesima disciplina ai suoi primi documentari industriali, ai molti film per le sale, alla scrittura, alla sua scuola di cinema, ai prodotti per la tv.
A proposito, forse non tutti ricordano che fu Olmi il regista dell’apertura della Porta Santa nel passaggio del millennio. Se la nostra cultura mentale è fatta anche di archetipi visivi, a lui dobbiamo una delle immagini più significative della nostra memoria: Giovanni Paolo II inginocchiato, abbracciato alla croce, davanti al buio di un nuovo millennio, il terzo, che si apriva nel segno drammatico di una fede in lui certa, ma nel mondo, di fatto, in ritirata.
Molte altre ancora sono le immagini che ci ha regalato la sua poesia: tra tutte quelle del film più rappresentativo, che lo ha consacrato nel cinema mondiale. “L’albero degli zoccoli” fu un’operazione coraggiosa, come quella di un primitivo in ritardo, secondo la definizione che del genio diede Giovanbattista Vico. E per i cattolici un po’ spaesati della fine degli anni settanta, che potevano contare sulle dita di una mano i film nei quali riconoscersi (oggi non è più così), quella sinfonia fu un conforto. Fu la descrizione di una terra buona, fatta di umanità sofferente ma vera: la campagna, simboleggiata dalla bergmasca. Allora c’era la convinzione che esistessero delle riserve geografiche (ad esempio la Polonia, l’Irlanda, e, appunto, la provincia contadina) nei quali la civiltà frutto della fede vivesse ancora nonostante la bufera della modernità laica. Oggi sappiamo che riserve territoriali non ce ne sono più. Semmai ce ne sono in regioni del cuore di ciascuno (sarei tentato di dire in periferie, ma si corrono rischi…). Speriamo in altri nuovi poeti che con il loro sguardo ce le raccontino.