Andrea Zanzotto – creatura umile e fragile, ormai prossima ai novant’anni – è, letterariamente, commosso testimone dello stupore e del mistero abissali che abitano ogni frangente dell’umano. La sua consacrazione letteraria risale al 1968, quando appare La Beltà, il libro di poesia più importante uscito in Italia nella seconda metà del Novecento. Eugenio Montale in un articolo sul Corriere della Sera dice: «Si tratta di una di quelle merci che si vendono imballate con l’iscrizione “fragile”: questa poesia suggestiona potentemente e agisce come una droga sull’intelletto giudicante del lettore. Tanta è la violenza a cui lo astringe il suo bisogno di verbalizzare la vita».
Questa poesia – prosegue Montale – è come acqua che scaturisce dal sottofondo della coscienza e della natura, una pozione che viene dal perpetuo ribollire del calderone delle streghe. Una colata di lava incandescente che eccita e stordisce. Capire questi testi – concludeva Montale – è un vero terno al lotto, come trovare un ago nel pagliaio. E se era così per Montale, figuriamoci per noi oggi.
Zanzotto, infatti, scrive per dire quello che non si vede. Se le parole di tutti i giorni nominano la superficie del mondo, a lui importa andare oltre. Se, come pare a lui, l’al di qua non basta, se il presente – da solo – non ha senso, cosa c’è di là? Possiamo cercare, o dobbiamo arrenderci? A chi o cosa fare appello, quando importino la verità e l’autenticità del vivere?
Da Zanzotto impariamo a scorgere le piccole luci indispensabili alla più tenue speranza. Una cospicua parte della sua opera registra i mille volti con cui il male dilaga, ininterrottamente, perché lo si sappia distinguere ed evitare. Le tenebre sono fitte. E le luci? I segni del trascendente, dove sono? Dove sono i motivi della speranza?
In una delle poesie di La beltà, che si intitola Sì, ancora la neve, la questione è posta, sommariamente, in questi termini: il poeta evoca una notte invernale, con la luna le stelle il ghiaccio la neve, sullo sfondo le montagne e i pini, poi compare un autobus e in primo piano un supermercato, «dove – dice Zanzotto – c’è pappa bonissima e a maraviglia», dove la vita si riduce a consumazione, dove vivere è consumare. Ebbene, qual è la parte dell’uomo in questo scenario?
Siamo «un segno senza significato», oppure abbiamo un «destino» da compiere, un «cammino» da percorrere? Per risolvere il dilemma occorre fare appello alla «fonte dei messaggi»: ma c’è una «sorgente»? Sotto quel che appare, c’è un principio originale? E che messaggi ha per noi? Si possono ritagliare dai suoi testi gli indizi per una risposta. Gli spiragli, le fenditure che consentono all’uomo di interpellare la fonte e udirne la voce.
La prima occasione viene a Zanzotto, nella sua prima raccolta, Dietro il paesaggio, del 1951, dalla meditazione sul mistero della maternità. La sua poesia, in questa chiave, è una dichiarazione di appartenenza alla madre: un tributo alla madre reale, e metaforica, come minima garanzia di senso e felicità. Non veniamo alla luce da soli. Abbiamo bisogno. Attraverso il legame che unisce il figlio alla madre Zanzotto scorge l’ombra di qualcosa di profondo: il fattore costitutivo della natura umana.
Il secondo passo (nella raccolta Vocativo, del 1957) è affidato alla possibilità che una visione contemplativa delle cose faccia intuire, nel creato, l’orma del creatore. La meditazione tocca il mistero della natura: la natura che è mistero e misteriosamente si offre come “creato”, come realtà ordinata. La misericordia, che scende dal cielo e si irradia, è ciò che dà fondamento al mondo, lo crea e lo conserva, rinnovandolo ogni giorno. Pasolini ha detto: «Diventa oggetto della poesia l’unica possibilità conoscitiva pensabile, che è quella metafisica, l’interpretazione del mondo sub specie aeternitatis».
Il terzo mistero che Zanzotto fa oggetto di meditazione è quello della Pasqua, al centro di un libro, pubblicato nel 1973 e intitolato, appunto, Pasque. La sua tormentata sperimentazione approda a tale riconoscimento: la presenza di Dio fra gli uomini, la partecipazione del trascendente alla vita terrena, dissemina sempre fragili e furtive impronte. La domanda d’assoluto diviene perciò un inseguimento, una caccia, un azzardo epistemologico, che scivola al di là del nulla: verso lo spazio-tempo pre-natale da cui tutto ha origine. Il segno di Dio si risolve nella voce desiderante dell’uomo che lo chiama, che ha il coraggio di sporgersi oltre il proprio niente. A partire dal vuoto della morte, la Pasqua configura il mantenimento di una speranza: uno sgambetto metafisico, apportatore di vita da una distanza forse non incolmabile. Non incolmata.