Professor Checchi, il mondo universitario protesta contro il governo per i pesanti tagli; ma al tempo stesso sono in molti a giudicare irresponsabile l’utilizzo delle risorse da parte dagli atenei, soprattutto negli ultimi anni: quale dei due è il problema maggiore?
I due problemi coesistono, e l’unico modo possibile per andare contro entrambe le conseguenze negative sarebbe quella di effettuare tagli selettivi. Attualmente la previsione del decreto-legge 133 è una riduzione del Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO), e il problema è che il FFO viene poi ripartito dal ministero tra le università non secondo criteri che premino il merito, ma secondo il criterio della spesa storica.
Non è certo un problema nuovo.
Questo problema era già stato evidenziato dal governo precedente ed era stato stipulato un patto tra il ministro Padoa Schioppa, il ministro Mussi e la CRUI, i quali avevano evidenziato criteri molto semplici, senza un concetto di efficienza particolarmente raffinato, che guardasse semplicemente al numero degli studenti iscritti in rapporto sia ai laureati, sia ai tempi di percorrenza del percorso universitario. Sulla base di questi criteri gli atenei avrebbero ottenuto dal ministero un finanziamento premiante, nell’ordine del 5%. Erano stati promessi 500 milioni di euro, ma poi in realtà non sono mai stati distribuiti: una quota pari a 190 milioni di euro sono stati usati per finanziare il fondo per gli autotrasportatori, e gli altri sono confluiti nel calderone.
Come dev’essere secondo lei nel dettaglio una corretta ripartizione del Fondo di Finanziamento Ordinario?
Esiste una legge sulla ripartizione del FFO, basato su uno schema proposto dal Cnvsu (Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario). Questo schema prevedeva una presa d’atto dello storico, al quale tutti gli anni aggiungere una quota correttiva che premi gli atenei più efficienti sul versante della didattica. Quindi il primo anno si distribuirebbe il 5% per gli atenei più virtuosi, il secondo anno il 10%, il terzo il 15%, e così via. In vent’anni si passerebbe da un finanziamento su base storica a uno su base se non proprio meritocratica almeno di maggiore efficienza. Ma questo non è mai stato accaduto: quando si arriva alla scadenza il ministero si trova sempre a distribuire il FFO tra gli atenei, vuoi perché in alcuni periodi si creano eventi particolari (se l’ateneo di Urbino, che era privato, fallisce, lo nazionalizzi e allora ci deve mettere dei soldi), vuoi perché il ministero si trova a dover coprire gli aumenti stipendiali legati all’inflazione. In buona sostanza, il finanziamento dell’università è sulla base dello storico, ed essendo sulla base dello storico tutto lascia presagire che anche il taglio sarà sullo storico.
Quindi i tagli sono troppi e anche distribuiti male?
Da una parte si può obiettare sull’entità del taglio, che è totalmente sproporzionato rispetto a quanto lo Stato italiano spende in rapporto agli altri paesi europei, perché abbiamo una spesa per studente in rapporto al Pil più bassa rispetto agli altri paesi. Però al tempo stesso può valere anche il discorso che l’adesione al trattato di Maastricht e l’azzeramento del disavanzo pubblico è una priorità politica che passa su tutto, e allora anche l’università deve fare la sua parte. Ammesso questo, bisogna però tagliare gli atenei che sono più inefficienti. Ma questa è una logica che non passa, perché politicamente poco remunerativa.
Parliamo però anche delle responsabilità degli atenei: non le sembrano che siano sempre a rivendicare sempre maggiori finanziamenti?
Certo c’è anche il corteo delle lamentele da parte di quegli atenei che in sostanza dicono: sempre stati svantaggiati, non abbiamo mai avuto la possibilità di competere con atenei di altre parti del paese, se oggi ci tagliate anche quel poco che abbiamo allora non riusciamo più a vivere. Teniamo conto che già oggi alcuni atenei sono in situazione di disavanzo esplicito: quelli andrebbero puniti, ma più li si punisce e più si aggrava la loro situazione, finché ci si trova a dover prendere decisioni delicate. Può un ateneo fare bancarotta? Questa è una decisione politica che capisco possa essere molto imbarazzante.
L’eccessiva proliferazione dei corsi è stata secondo lei una delle cause principali di spreco di risorse da parte delle università?
Sulla proliferazione dei corsi sarei cauto, perché ha permesso un risultato importante come l’aumento delle iscrizioni: portare l’università sotto casa, anche se in alcuni casi offre corsi un po’ strano e con nomi buffi, ha comunque effetto di stimolo della domanda di istruzione superiore. È per questo, infatti, che le iscrizioni e il numero di corsi e sedi universitarie crescono con lo stesso ritmo negli ultimi quindici anni. Quindi c’è un effetto positivo. Il problema vero è che questo accrescimento è stato completamente indifferenziato, e ha portato – stante anche il meccanismo di reclutamento esistente – a un ingresso negli atenei di persone di dubbia competenza, e spesso con legami di parentela con chi doveva selezionare.
Dove stanno allora gli sprechi?
Il vero spreco è dato dal fatto che non si sia ancora preso in considerazione che, con le dimensioni cui è arrivato il nostro sistema universitario, non possiamo più andare avanti con l’idea che gli atenei sono tutti uguali. Occorre introdurre differenziazioni tra gli atenei in termini di qualità, avendo ad esempio delle “research university”, che hanno i corsi magistrali e i dottorati, e delle “teaching university”, che hanno solo i corsi triennali. Questa operazione deve però essere gestita dal centro, perché nessun ateneo spontaneamente si dichiarerà una “teaching university”. Tuttavia i governi che sono succeduti nelle ultimi legislature – con colpe che vanno quindi equamente suddivise tra entrambe le parti politiche – hanno favorito la nascita di istituti di eccellenza con finanziamenti molto generosi, ma sostanzialmente senza nessuna valutazione del loro operato. Sono iniziative sporadiche che non ottengono l’effetto di differenziare il sistema universitario, perché quei centri non nascono con la caratteristica di essere universalmente riconosciuti come istituti di eccellenza.