Giuseppe Feyles è un importante dirigente televisivo, e ben conosce l’arte di incorniciare le storie. Eppure, questi racconti fantastici de La classe scomparsa (Manni, 2015) sono stati scritti quand’era poco più di un ragazzo e insegnava filosofia nei licei torinesi. La cornice è quella di una polverosa scuola di preti, che pare uscita da un dagherrotipo gozzaniano, con tanto di busti di marmo e molti ricordi. Un ispettore della fondazione bancaria che finanzia l’istituto vuol verificare se questo può ancora ricevere sovvenzioni, in base al lavoro che svolge. C’è da parlare col preside, che non si decide ad arrivare all’appuntamento, da valutare schede e compiti degli allievi, di cui non si vede traccia, in quelle aule vuote, in quei corridoi che rimbombano di silenzio. C’è solo un sacerdote, l’anziano don Albino, che lascia l’ispettore ad aspettare e ad interrogarsi, con un plico di compiti, fogli battuti a macchina, tutti racconti, difficilmente nati dalla fantasia e dalla pena di ragazzini d’antan. Quelli di oggi sono educati alle più truci serie tv e prediligono le storie bad, splatter, l’horror e l’assurdo. Pure non saprebbero scrivere queste pagine così nette, in cui irrompe il mistero, nella realtà più reale, più quotidiana, banale, perfino volgare. L’uomo divorato poco a poco dai microbi, milioni di bestioline invisibili che s’insinuano, corrodono poco a poco il suo corpo, resistenti e implacabili, fino alla morte, che non sarà per malattia. O il cacciatore di vipere che lascia spazio ai tum tum del cuore, si fa sorprendere dalla paura, e i serpenti lo aggrovigliano, “lo coprono coi loro ventri viscidi e affondano i morsi…”. O il morto che continua a vedere e sentire chi si affanna a soccorrerlo e che non riesce ad andarsene, a trovar pace, finché una mano pietosa non lo copre con un lenzuolo.
Il fantastico ha mille corde e si palesa nel grottesco o nel meraviglioso, può assumere i toni della fiaba, e rivelarsi in una normale casetta di una qualsiasi famigliola. Ma c’è una stanza in più, segreta, nel muro dietro il divano. Non si resiste ad esplorarla per scoprire che è essa stessa una porta verso tante altre stanze, castello d’incanti che si ripetono spazio dopo spazio, infinito. Un racconto che sarebbe piaciuto a Buzzati. Come avrebbe interessato Calvino lo squalo cattivo che voleva sfidare l’oceano, superando la sua natura, cercare l’origine di quel mare-vita. Come ha poetato Dante, gli uomini e gli squali malati di hybris finiscono male, c’è sempre un gorgo o un pantano a togliere il fiato.
Storie perturbanti, di cui è caparra di morte la solitudine, la pazzia, l’indifferenza, la cattiveria. Di un mondo, però, “in cui la salvezza, come la morte, accade sempre come un imprevisto”. C’è un poi. I destini appesi al filo di parche bizzose rivelano un disegno, la burla architettata da un caso cinico e baro non occulta quel barlume di significato, di pietà.
E la cornice, la classe? Chi ha scritto questi racconti? Ombre di ragazzi dal ciuffo ribelle si nascondono negli stanzoni vuoti della scuola, fantasmi che lasciano l’eco di risa, motti, giochi tra compagni. Cos’è reale, e quando il reale, proprio perché è tale, è intriso, illuminato, redento dal mistero? Nell’imprevisto, la spia di una risposta.