La partecipazione alle organizzazioni di volontariato è una componente essenziale della cittadinanza attiva è però importante non trascurare i suoi tratti specifici, che si manifestano sia rispetto agli obiettivi perseguiti dalle singole organizzazioni, sia rispetto al sistema dei valori e delle motivazioni che sono storicamente alla base del volontariato, in quanto forma di azione sociale dotata di un suo codice simbolico. Ciò che contraddistingue il volontariato da altre forme di partecipazione sociale e civile è la centralità della gratuità, dell’altruismo, della reciprocità, della fiducia, della solidarietà ovvero di valori che si collocano al di fuori di una logica utilitaristica, connotata dalla ricerca di un profitto economico e da un vantaggio monetario, anche se tali valori, e le corrispondenti aspettative di chi li pratica, non escludono e anzi implicano la ricerca di un beneficio personale e sociale, individuale e collettivo, riconducibile alla categoria di bene-essere e di bene-comune.
All’origine della gratuità e dell’altruismo vi è, in effetti, un particolare tipo di “interesse” a sé e agli altri che si fonda sul desiderio di cose buone, vere, belle, presentite come esigenza del proprio cuore, come pure la percezione di una corrispondenza tra questo desiderio personale e il medesimo desiderio avvertito negli altri. In questo senso, la tensione alla gratuità e all’altruismo è l’esito di una gratitudine per qualcosa e per qualcuno che è già entrato a far parte, positivamente, della nostra esperienza, piuttosto che il portato di uno sforzo volontaristico o di un “dovere”.
La gratuità e l’altruismo entrano nell’orizzonte personale e sociale sotto forma di “desiderio”, di “corrispondenza”, di “voler essere” piuttosto che sotto forma di “dover essere”, tanto più nel contesto culturale contemporaneo che enfatizza la soggettività, l’immediatezza, l’espressività, in contrapposizione all’oggettività, alla pianificazione, alla rinuncia. Questa distinzione non è di poco conto e non è affatto nominalistica come risulta evidente per chiunque abbia una responsabilità educativa nei confronti di persone in formazione (i propri figli, i propri nipoti, i propri scolari), tanto più se in età adolescente, e si sforza di proporre orientamenti ideali e giudizi di valore non appiattiti sull’istinto, sull’ istante, sul possesso immediato.
Il lavoro propositivo e maieutico connaturato al “rischio educativo” non è peraltro circoscritto all’età giovanile, ma si estende all’intero arco della vita e segnatamente agli ambiti lavorativi più coinvolgenti, dinamici, innovativi dove sono richiesti “investimenti” e “scommesse” su di sé e sugli altri particolarmente “rischiose” dal punto di vista dell’autostima e della reputazione, più ancora che del tornaconto economico: in tutti questi casi, che richiedono elevata intraprendenza, la molla dell’azione appartiene molto più alla logica della “gratuità” (rischio senza un tornaconto prevedibile e proporzionato) che del “calcolo”, anche se ci si muove in un ambito professionale remunerato.
È il caso di notare che le caratteristiche dell’attuale mercato del lavoro richiedono a un numero sempre più vasto di persone di sapersi “avventurare” nel lavoro con un elevato senso di intraprendenza e di investimento, senza certezze preventive sull’esito dei propri sforzi e che in questa faticosa battaglia quotidiana hanno maggior probabilità di tenuta psicologica (prima che di riuscita economica) coloro che hanno maturato fiducia in sé stessi e negli altri attraverso esperienze di gratuità.
Contrariamente a quanto si è soliti ritenere, le virtù della gratuità non sono necessarie ed apprezzate solo nell’ambito delle attività volontarie, non retribuite, non profit, ma anche nell’ambito delle attività professionali ed economiche orientate al profitto, come indica, in forma apparentemente paradossale, l’enciclica Caritas in veritate (cfr. par. 36-39) con riferimento al bisogno di gratuità e di spirito del dono anche nella vita economica, affinché essa possa funzionare efficacemente, creando benessere invece che malessere.
Prima che un richiamo morale (certamente presente: cfr. par. 37) vi è in questa sottolineatura un richiamo alla natura costitutiva di ogni lavoro (profit o non profit) e del lavoro in quanto tale, che è la modalità più immediata attraverso cui ogni persona esprime e trasforma sé stessa, mentre trasforma la realtà circostante mediante la propria cultura e il proprio desidero di ben operare, così come è stato magistralmente delineato nell’enciclica Laborem exercens (di cui ricorre nel maggio prossimo il 30° anniversario) da Giovanni Paolo II, attraverso la distinzione tra lavoro in senso soggettivo (centrato sulla persona che lavora) e lavoro in senso oggettivo (inteso come mezzo di produzione).
Il lavoro (qualunque lavoro) partecipa del bisogno personale di espressività, creatività, signoria, prende dunque le mosse da una positività e un senso di benedizione, che entra in dialettica con l’opposto senso di costrizione-maledizione. Partecipa di un senso di gratitudine tanto quanto di un senso di obbligo, dovere, necessità.
Il lavoro volontario (proprio di chi opera in organizzazioni di volontariato) è allora un’espressione emblematica del “piacere di lavorare” (per una causa avvertita come buona per sé e per gli altri e per una buona società), in opposizione al “dovere di lavorare” per ragioni imposte, estrinseche, strumentali.
In questa prospettiva, il lavoro volontario (cioè gratuito) – che imita, simula, riproduce il lavoro di cura prestato per affetto prima che per necessità – non rappresenta una negazione dialettica (per contrapposizione) del lavoro retribuito, ma l’espressione di una “eccedenza” che ha bisogno di esprimersi e manifestarsi in forme molteplici.
Non voglio con questo fornire alcun alibi o copertura ideologica a politiche di misconoscimento o peggio di sfruttamento del lavoro retribuito; mi preme piuttosto prendere spunto dal lavoro volontario per ricuperare, in profondità, i multiformi aspetti e significati del lavoro umano.