Mi risulta difficile pensare ad un tema più attuale di quello scelto per questa XXXIII edizione del Meeting di Rimini. Di fronte alla crisi spirituale di un Occidente stanco e sfiduciato, affermare che “la natura dell’uomo è rapporto con l’infinito” è, oltre che un atto di audacia, un atto di intelligenza. Perché proprio nella chiusura del nostro orizzonte all’interno di un immanentismo radicale, espressione di un neomaterialismo egemonico, riposa la spiegazione più profonda di quanto sta avvenendo tanto sul piano storico quanto su quello antropologico. Per questo, ho ascoltato con immenso piacere l’intervento di Prades, che, con la sua sapiente lettura, mi ha fatto risuonare innumerevoli pensieri. Per provare a condividerli, ripercorro brevemente i tre movimenti che lo stesso Prades ci ha proposto, riordinandoli secondo una diversa sequenza.
1. Concordo pienamente sul fatto che viviamo un tempo profondamente neomaterialista. Sul piano epistemologico, mentre da una parte si attacca ogni pretesa di verità, dall’altra si afferma che tutto ormai rientra nel canone della spiegazione scientifica: incluso l’essere umano, con la sua intelligenza, la sua sensibilità, la sua spiritualità, ridotte a meri processi chimico-biologici. Sul piano sociale e antropologico, la realtà viene fatta coincidere con ciò che viene costruito da mani umane (attraverso la mediazione tecnologica). Per molti aspetti, il materialismo non è mai stato così arrogante, anche perché sa di avere al suo arco frecce appuntite: grazie a strumenti sempre più potenti, tutto è ridotto alla sola dimensione osservabile arrivando fino al punto di sostituire l’infinito con l’infinitazione e l’illimitazione. La prima, moltiplicando le possibilità, oggettifica il desiderio, intrappolandolo nella vuota ripetizione del circolo impossibile del soddisfacimento. La seconda spalanca le porte all’hybris dell’uomo contemporaneo che si sente padrone di se stesso e del mondo. Si intravvedono i pericoli di un pensiero unico che, nascosto dietro la “modestia” della scienza e l’utilità della tecnica, non ammette altre domande sulla vita e sul mondo che non siano quelle che corrispondono a precisi canoni scientisti.
2. Per quanto potente, questo sistema, così suasivo e pervasivo, non tiene. E non tiene per due precise ragioni.
La prima è che l’illimitazione, mettendo tra parentesi la stessa realtà, ci espone a pericoli gravissimi. Si pensi alla crisi finanziaria: l’enorme architettura tecnica costruita negli ultimi vent’anni vacilla pericolosamente nel momento in cui si scopre per quello che è: un sistema di promesse di pagamento che, oltre ad un certo livello di complessità, perde il suo stesso fondamento. Rischiando il tracollo. È come se la realtà, che avevamo rimosso, fosse tornata a bussare prepotentemente alla porta. Uscire dalla crisi significa rinunciare a questa rimozione, riconoscendo che la realtà non coincide con la nostra proiezione e che, proprio per questo, possiamo (finalmente!) tornare a esercitare la nostra responsabilità (che interrompe l’esercizio autistico del rispondere solo a noi stessi).
La seconda ragione è che l’infinitazione si rivela un surrogato deludente dell’infinito. Nel linguaggio della psicanalisi, Lacan dice che il desiderio reso godimento rivela di continuo la propria inconsistenza. Proprio ciò che, con linguaggio religioso, affermava s. Agostino: solo in Dio il nostro cuore trova la sua pace. Oggi, su scala di massa, le società avanzate possono capire meglio che, in assenza di Dio, la ricerca ossessiva del nuovo diventa mera coazione a ripetere, distruggendo quel senso che pure rimane domanda del vivere. Al di là delle dichiarazioni altisonanti, come contemporanei ci ritroviamo così molto vicini all’esperienza biblica della perdizione: abbiamo la possibilità di andare dove vogliamo, siamo continuamente sollecitati da nuovi desideri e alla fine scopriamo che ci siamo persi. Singolarmente e collettivamente siamo balene spiaggiate: nonostante tutta la nostra potenza, non riusciamo più a capire chi siamo e cosa stiamo facendo. Drammaticamente, proprio quella cultura neomaterialista che si presenta come innamorata della vita, rifiutando Dio, finisce per alimentare la pulsione di morte. Forse per questo, l’Occidente, al culmine del suo successo, rischia di sprofondare in se stesso.
3. Ancora, con Prades, concordo nel pensare che viviamo un tempo vertiginoso nel quale siamo chiamati a confrontarci con sfide impegnative. Ma non si sbagli la valutazione: questo tempo non è da maledire, ma da benedire. Per i credenti la sfida è lanciata: la pretesa egemonia del neomaterialismo può essere contrastata tanto sul piano filosofico e culturale quanto su quello sociale e antropologico. Senza cadere nella trappola del fondamentalismo, nella quale siamo continuamente attirati. Si tratta, piuttosto, di amare la condizione che condividiamo con i nostri contemporanei, al fine di invertire il segno di alcune dinamiche che si muovono “contraria”. A partire dalla consapevolezza che questo mondo neomateralista mostra una crescente difficoltà a relazionarsi, in modo maturo ed equilibrato, con la realtà. Non a caso in questo ultimi decenni il neomaterialismo radicale si trova a doversi misurare con un inaspettato ritorno della religione; ritorno che, anche se non sempre scevro da problemi e contraddizioni, dice che la liquidazione dell’infinito e delle sue domande è affare tutt’altro che scontato. Il cristianesimo, in particolare, ha tutte le risorse per vivere questo tempo e le sue sfide come una grandissima opportunità.
In primo luogo, perché la fede di cui parla non è una magia, ma un’esperienza che si radica nella vita di tanti uomini e donne. E’ l’esperienza di un incontro. La Chiesa si interroga, giustamente, sul tema della nuova evangelizzazione: ma che cosa potrà mai essere questa nuova evengelizzazione se non il racconto di un incontro che salva la vita? Come credenti, possiamo, senza retoriche enfatiche, dire qualcosa di questo incontro?
E, in secondo luogo, il cristianesimo, come religione del logos, non dimentica che è proprio dal confronto e dalla lettura della realtà, attraverso la nostra ragione, che è possibile scoprire le tracce di Dio. A partire da quella apertura benefica che chiamiamo “infinito”. Che non è un’esperienza intimistica o privata. Ma un elemento costitutivo della nostra comune condizione umana. Riconoscere questa apertura ci porta a scoprire che, come uomini, abitiamo nel mistero e che proprio questo terreno comune apre la via alla vera libertà e alla vera tolleranza.
Da questo punto di vista, quello che viviamo è un tempo straordinario per la fede. Una fede che, sulle orme del racconto di altri che ci hanno preceduti, osa mantenere aperta la via dell’orizzonte, correndo il rischio di lanciare ogni volta in avanti il passo nella serena certezza che, dopo il momento di vuoto, il piede incontrerà il terreno solido di Dio. È di questa fede, è di questo racconto che l’uomo contemporaneo ha sete, per uscire dalla trappola del falso movimento nel quale si autocondanna quando chiude la porta all’infinito.