1967. Siamo in tre nella minuscola aula della scuola media del mio paese, ai piedi delle Langhe; è l’ora di latino, le altre 15 compagne sono andate a casa, a loro il latino non interessa, molte faranno le operaie nell’indotto della Fiat, qualcuna la segretaria, un paio le ragioniere. Di noi tre, due vogliono fare la maestra, io penso che vorrei continuare a studiare questa affascinante lingua che sembra un difficile puzzle. Quando facciamo Educazione musicale, siamo una decina, abbiamo dei buffissimi strumenti a percussione (solo anni dopo saprò che si trattava di un antesignano dello strumentario di Orff che il nostro stravagante professore usava in modo magico), ma ci divertiamo un mondo. Ci siamo tutte quante, invece, quando facciamo Applicazione tecnica, disegniamo modelli, tagliamo stoffe, cuciamo, costruiamo piccoli oggetti (oggi si direbbe bricolage…), in queste ore la mia aula diventa un laboratorio che mi sembra quello della sarta di mia madre.
1975. Sono all’università, ma mi arrivano le prime richieste di supplenza. La prima esperienza è in una cittadina vicina al mio paese, dove coloratissime colleghe con gonnellona e zoccole schöll mi spiegano che finalmente nella scuola media sono sparite le ore facoltative (e il latino), tutto è obbligatorio e tutti fanno tutto uguale. Via le applicazioni tecniche femminili, adesso anche le ragazze fanno educazione tecnica, si cimentano col disegno geometrico e studiano sul libro che cos’è il legno e il petrolio. Le mie colleghe sono molto contente, io guardo questi miei allievi, moltissimi sono appena arrivati dal Sud, raccontano (molto spesso in dialetto) una vita diversa, penso che li farebbe molto felici lavorare col legno come faceva mio fratello nell’ora di Applicazione tecnica. Se vogliono, però, al pomeriggio, finita la scuola ci sono le Lac (libere attività complementari).
1995. Sono preside in una scuola media di provincia, rifletto con i miei docenti sul fatto che in prima media entrano ragazzini di cui il 20% è insufficiente in matematica, escono dalla terza e gli insufficienti sono il 40%. Con un moto di garibaldina insofferenza decidiamo di organizzare un sistema di classi aperte e di percorsi opzionali (l’organico del Tempo Prolungato ce lo permette) che galvanizzano i ragazzi e le loro famiglie. Orari e regolarità consolidate lasciano spazio ad una flessibilità che ha come criterio la ricca diversità dei nostri allievi e delle loro capacità, che cerchiamo di sviluppare tutte quante. Qualche tempo dopo sono costretta a trasferirmi, il collega che mi sostituisce mi giudica un’irresponsabile. Tutto uguale a tutti, da settembre a giugno, questa è la regola e questo va fatto.
Tre scene della mia vita nella scuola media. Forse possono spiegare perché, quando nel 2001, ad autonomia ormai vigente, lessi di una proposta che ipotizzava di una scuola secondaria di I grado che prevedeva un tempo scuola obbligatorio per tutti (800 ore) e un tempo scuola opzionale (300 ore) che ciascuna istituzione era chiamata a progettare in base alle diverse esigenze educative dei suoi allievi e delle sue famiglie, pensai: forse ci siamo, possiamo scardinare l’idea che su cui neanche don Milani ce l’aveva fatta. Dare parti uguali a diseguali, infatti, non è giustizia, ma ingiustizia. Non mi scoraggiai nemmeno di fronte al fatto che nel 2004 quel rivoluzionario percorso opzionale fosse diventato, tra i meandri di Viale Trastevere, un pugno di ore. Ormai allenata al realismo, pensai: si comincia così e poco per volta anche i risultati (i ragazzi imparano meglio e più volentieri, le famiglie vengono coinvolte in prima persona e, con i docenti, hanno un punto di riferimento nel docente tutor …) confermeranno che siamo sulla strada corretta.
Un’altra questione mi convinceva della proposta del 2001: quella delle competenze. Ora lo sappiamo, ce l’ha scritto l’Europa: comprovata capacità di utilizzare conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e/o metodologiche, in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale e personale. Anche allora lessi una definizione simile e pensai: come si farà mai a comprovare che un allievo è competente in lingua italiana se non chiedendogli di parlare/scrivere autonomamente, in modo efficace, in una situazione in cui ha un problema di lavoro, di studio (di vita?) da risolvere? E come si farà mai a dire che è competente in arte se non mettendolo davanti ad un monastero del Trecento e chiedendogli di tirar fuori, in libertà e responsabilità, tutto ciò che può dare spiegazione e senso a quel che vede? E se gioca una partita bene, rispettando tecniche sportive e regole con i compagni e gli avversari, non avrò forse la dimostrazione che è competente, che in quella situazione ha saputo agire con “giudizio” (non sono proprio le parole dei documenti europei, ma qualche licenza “prosaica” me la concedo)? E così via. La didattica cambierà, per forza – continuavo a pensare – altrimenti che significato potremo mai dare a questa parola: cum-petere, cercare di raggiungere, nell’unità della propria persona e con gli altri, il meglio delle proprie capacità? Ho smesso di pensare quando, in virtù del politicamente corretto, dell’emergenza economica (c’è anche quella educativa, ma vien dopo, molto dopo!), del quieto vivere sindacale, nel 2008 l’opzionalità è diventata una ridicola ora aggiuntiva di “italiano”. Cosicché, con buona pace di tutti, nella scuola secondaria di I grado c’è ben poco da scegliere. La flessibilità è per le ore che i docenti infliggono agli studenti, non uno spazio nel quale gli studenti provano le loro scelte e ne rispondono, accompagnati da famiglia e docenti.
In compenso leggo della pédagogie différenciée, in Francia e in Belgio, che dice più o meno così: stiamo attenti perché, avendo voluto da 40 anni perseguire l’uguaglianza con una scuola uniforme, in realtà alimentiamo a dismisura le ineguaglianze. E finiamola di pensare che possiamo “individualizzare” con un po’ più di tempo o un po’ meno di contenuto, senza comprendere che questo è un ottimo sistema per alimentare l’effetto diffrazione scolastica, vale a dire la mancata attribuzione di senso da parte dell’allievo al sapere scolastico e, di conseguenza, il suo allontanamento dalla scuola e dai suoi codici.
Leggo anche di Watkins che in Gran Bretagna, con altri studiosi, si interroga su come tradurre in prassi operativa, senza distorsioni efficientistiche, l’idea che la diversità personale sia il punto di partenza per un insegnamento che mira ad un apprendimento di qualità, capace di migliorare la coesione sociale e l’equità. Leggo delle ricerche sull’apprendimento personalizzato in Australia che si gioca in gran parte sul cambiamento dell’azione didattica e, di conseguenza, della formazione iniziale e in servizio dei docenti. Come dire: se vuoi realizzare un’idea di scuola, devi avere i docenti preparati per realizzarla (a proposito, che idea di scuola media sostiene il DM 249/10 che ne formerà i futuri docenti dei prossimi 30 anni?)
Noi, tutto questo patrimonio di idee, l’avevamo. Lo abbiamo buttato via. E adesso, per non far nemmeno i conti con una colpa che dovremmo invece confessare, Fondazione Agnelli o sindacati, opinionisti o pedagogisti (?), ne rimuovono perfino il ricordo e fanno un tabù dell’impiego di certe parole che ricordano quella stagione (docente tutor, docente coordinatore, portfolio delle competenze, piani di studio personalizzati, unità di apprendimento). Come se quelle opportunità non fossero esistite. E si ricomincia a riscoprire come innovativa l’acqua tiepida di soluzioni che erano già morte almeno tre volte (tipo quella dell’apertura delle scuole al pomeriggio per le Lac). Reincarnazione orientale. Pur di non riconoscere: abbiamo sbagliato. Ricominciamo di là.