I rettori guardano con grande preoccupazione al difficile momento in cui si trova l’università italiana, e temono che i tagli previsti dal governo possano mettere in ginocchio l’intero sistema. Proprio per cercare di rispondere a questa situazione i rettori di alcuni atenei, che da alcuni mesi sono entrati a far parte dell’Associazione per la Qualità delle università italiane statali (Aquis), hanno ieri lanciato il loro grido d’allarme, e hanno messo sul tavolo una serie di proposte per trovare una via d’uscita. Punto essenziale, come spiega il rettore del Politecnico di Milano Giulio Ballio, è quello di abbandonare un sistema centralistico incapace di rispondere ai problemi particolari delle diverse università.
Professor Ballio, partiamo innanzitutto dalla possibilità per le università di trasformarsi in fondazioni, come previsto dal decreto 133: c’è chi parla di rischio privatizzazione, e chi al contrario vorrebbe un progetto più completo in questa direzione, sulle orme ad esempio della proposta di legge del senatore del Pd Nicola Rossi. Qual è la sua posizione?
Non si può a mio avviso parlare di fondazioni se non si tiene conto di un altro problema che sta a monte. Tutti i sistemi universitari vengono sostenuti finanziariamente in due modi diversi: o dagli utenti, come accade negli Stati Uniti, o dalla collettività, con fondi pubblici statali o regionali, come accade in Europa, Russia o Cina. Questa scelta non può che essere una scelta politica, ed è totalmente indipendente dalla scatola “fondazione”. Noi ora in Italia abbiamo una situazione in cui il 95% degli studenti si trovano nel sistema finanziato dalla collettività; solo il 5% è nelle università private. Questo è un discorso che è indipendente dalla modalità fondazione. Si vuol decidere, ad esempio, che il Politecnico venga sostenuto dagli studenti anziché dalla collettività? Non c’è bisogno di fare la fondazione, basta deciderlo.
In quali casi potrebbe secondo lei servire la trasformazione in fondazione?
La modalità della fondazione potrebbe avere una ragione se entrassero negli organi direttivi anche degli stakeholders esterni, cioè degli enti finanziatori. Ma il problema è che questo ora è totalmente impensabile, perché nessun ente finanziatore ha interesse ad entrare a gestire l’università. Non ci sono i mecenati, e le fondazioni bancarie hanno nei loro statuti solo l’aiuto alla ricerca. Oltre tutto il sistema universitario in generale è notoriamente indebitato, e non si sa nemmeno di quanto; quindi è ovvio pensare che nessun privato voglia entrarvi. Questa è la situazione contingente con cui bisogna fare i conti quando si parla di fondazioni.
Passiamo all’altra critica che in questi giorni viene mossa contro il governo: i tagli eccessivi che vengono imposti all’università. Cosa ne pensa?
I tagli sono di due tipi: sia tagli finanziari, sia tagli del personale, con il blocco del turn over. Questo secondo tipo di taglio, soprattutto, è gravissimo: poter reintegrare solo il 20 % del personale docente che va in pensione significa sostanzialmente precludere l’accesso al mondo accademico di un’intera generazione di giovani ricercatori. Significa cioè perdere le persone migliori che stiamo selezionando in questi anni, che evidentemente si troveranno costrette ad andare all’estero. Basti pensare che un sondaggio tra i nostri allievi di dottorato ha dato come risultato che l’80% di loro vuole andare via dall’Italia. Ma non si tratta di una fuga, bensì di una cacciata dei cervelli.
Per quanto riguarda invece i tagli finanziari?
Il taglio finanziario è del 20% entro la fine del 2012. Considerato il fatto che il nostro sistema universitario spende in media l’86% in personale, spesa che aumenta per gli scatti stipendiali, ne consegue che nel giro di pochi anni non ci saranno più soldi per pagare il personale e quindi il sistema andrà in bancarotta. È pur vero che ci sono università che hanno gestito meglio le risorse; il Politecnico, ad esempio, spende solo il 67% per il personale. Ma questo non toglie che anche questi atenei si troveranno costretti a tagliare su tutti i servizi, dalle spese per i lavoratori fino alle spese essenziali, come quelle sul riscaldamento e il condizionamento.
A proposito di diversa modalità di gestione da parte degli atenei, il Politecnico, di cui lei è rettore, fa parte di Aquis (Associazione per la Qualità delle università italiane statali), il consorzio delle università “migliori” che proprio ieri ha avanzato una serie di proposte. Come risponde alle critiche di chi vi accusa di esservi “auto-eletti” i numeri uno?
Le università di Aquis non si sono date la patente di più brave. Si sono auto-selezionate su parametri oggettivi, tra cui il rigore del bilancio, il fatto di avere una certa dimensione, nonché una certa notorietà a livello internazionale. Quindi si sono scelti solo parametri oggettivi, indicatori che non hanno a che vedere con la qualità, ma che riguardano solo il livello organizzativo, gestionale e l’interesse per l’internazionalizzazione. E si trovano su tutto il territorio nazionale, dalla Lombardia alla Calabria. Abbiamo costituito dei tavoli per riflettere su quello che si può proporre, e su come prendere ad esempio i comportamenti virtuosi; poi, d’accordo con la Crui, abbiamo deciso di proporre al governo un metodo di lavoro che può essere esteso a tutte le università.
Qual è il succo della vostra proposta?
La proposta è: usciamo dalla sistema dei fondi a pioggia. Ognuno metta a disposizione la propria situazione con la massima trasparenza di fronte al ministero dell’Economia e dell’Istruzione, il quale deciderà gli obiettivi che questa università dovrà rispettare. Ministero e università quindi saranno in grado di fare un patto di stabilità, di una certa durata, che potrà essere rinnovato se verranno raggiunti gli obiettivi prefissati. Viceversa, per le università che sono a rischio fallimento, il ministero dell’Economia farà, d’accordo con loro, un piano di rientro per non farle fallire. Ma non si può, per salvare qualcuno, far fallire l’intero sistema.
Perché si è arrivati a questa situazione di crisi finanziaria del sistema universitario?
Il fatto è che i vari atenei sono talmente diversi uno dall’altro, e il sistema non può essere gestito con regole uniche. Da qui il discorso dell’autonomia: se non si dà loro autonomia, gli atenei diminuiscono la qualità. L’hanno capito anche tutti i precedenti ministri, che non per nulla hanno fatto passi avanti sul piano dell’autonomia: il guaio italiano è che accanto all’autonomia non è stato impostato un sistema di valutazione. Sulla valutazione siamo in ritardo di quindici anni, anni che abbiamo perso per discutere come impostare il discorso valutazione senza dispiacere a nessuno. Il problema ora non è di facile soluzione, e non possiamo chiedere alla Gelmini di risolvere in sei mesi quello che non si è risolto in quindici anni. Partiamo dal creare progetti personalizzati, decisi di comune accordo tra atenei e ministero: questo è il punto di partenza per ridurre il centralismo dell’attuale sistema, destinato in tempi brevi al fallimento.