Che il Sessantotto sia stato un fenomeno di portata mondiale, conosciuto nelle sue linee generali da tutti o quasi, è indubbio. Meno scontato, invece, è apprendere che la Sicilia, con Catania a rappresentarne il fulcro, giocò un ruolo ben più significativo di quanto si pensi comunemente. Quanti, per esempio, non ricordano le storiche immagini del maggio francese? Ma quando si tratta di ricostruire una realtà regionale come quella siciliana, per quanto vivace, ecco che le difficoltà si moltiplicano. A venirci in soccorso in questa opera di riscoperta storico-culturale è stato il dibattito “Il nostro ’68” tenutosi il 16 maggio nell’ex Monastero dei Benedettini, oggi sede del dipartimento di scienze umanistiche dell’Università di Catania. Moderato da Giuseppe Di Fazio, presidente del comitato scientifico della Fondazione Domenico Sanfilippo Editore, l’incontro ha visto alternarsi nel dibattito coi presenti due illustri relatori quali Antonio Di Grado, ordinario di letteratura italiana nello stesso dipartimento, e don Antonio Giacona, che dal 1987 al 2017 è stato missionario in Cile e professore nell’Università Cattolica di Santiago. Due personalità provenienti da universi apparentemente lontanissimi eppure legati a doppio filo da un’esperienza comune ed estremamente intensa.
Uno, Di Grado, tutt’altro che in possesso di una fede salda e certa, spesso in contrasto coi precettori religiosi; l’altro, Giacona, proveniente dalle file dell’associazionismo cattolico e desideroso di vivere pienamente, sul campo, i precetti del cristianesimo. Entrambi si ritrovarono uniti nella singolare attività di Gioventù studentesca — una delle tante aggregazioni giovanili catanesi nate negli anni 60 sull’onda di tensioni sempre crescenti — e del giornale da quest’ultima promosso, Sicilia studenti, di cui Di Grado e Giacona furono rispettivamente direttore e collaboratore.
E proprio nel ’68 — un anno che ai siciliani, e non solo, fa riaffiorare le tragiche immagini del terremoto nella Valle del Belice (evento per cui anche ragazzi di Gioventù studentesca come Mario Pluchinotta si mobilitarono nel tentativo di soccorrere gli sfollati) — tale giornale pubblicò un’inchiesta per certi versi dirompente, condotta all’interno del difficile quartiere catanese di San Cristoforo.
I dati dell’indagine, che poi contribuirono alla nascita del volume La missione dietro l’angolo: un gruppo nel quartiere pubblicato nel 1970 da Jaca Book, rivelarono aspetti talmente duri da digerire per la benpensante visione borghese da rappresentare un vero e proprio schiaffo all’indifferenza di quest’ultima. Tra le altre cose, dal campione esaminato emergeva una percentuale vicina al 20 per cento per quanto riguardava gli analfabeti, dato ben più alto se a questi si sommavano coloro che semplicemente disponevano di frequenza elementare, senza considerare le scarsissime condizioni igieniche di gran parte delle famiglie. Ma qual è il legame tra questi dati e l’epopea sessantottina?
“Il Sessantotto non fu solo politico. Si trattò di una vera rivolta esistenziale ed è in uno di questi momenti di profonda crisi che nacque la sconvolgente esperienza in quel mondo disagiato ma disperatamente vitale”. Le parole di Antonio Di Grado rendono bene i sentimenti di quel tempo e di quell’intento: come si evince già dal titolo del testo poc’anzi citato, l’immersione in una realtà complessa e degradata come quella di San Cristoforo era la dimostrazione di come non fosse necessario solcare i mari più profondi o giungere nelle terre più sperdute per rendersi artefici della gratuità, per applicare l’azione caritativa nella sua espressione più sincera. Ciò di cui c’era realmente bisogno, non troppo diversamente dai giorni nostri, era uno sguardo attento e curioso verso le cose che, essendoci troppo vicine, molto spesso ci sfuggono.
Così i due relatori, che dopo quei fatti saranno separati dalla vita per poi ritrovarsi sostanzialmente in occasione del convegno che li ha visti ripercorrere le tappe della loro opera giovanile, insieme a molti altri si fecero portatori di una visione quasi opposta rispetto a quella che il ’68 andava diffondendo: se, infatti, i grandi movimenti di rivolta credevano che bisognasse cambiare le strutture del sistema per poter cambiare la condizione dell’uomo, i ragazzi di Gioventù studentesca, lungi dal pensare che la loro missione fosse una perdita di tempo, puntarono sul cuore degli uomini come motore per una possibile evoluzione epocale. Del resto, con le parole di Giacona, “per affrontare il bisogno degli altri ci vuole un passo e tramite quel passo potevamo al tempo stesso educare noi stessi alla solidarietà”.