Necessità e resistenza della poesia, il sottotitolo di un prezioso libriccino curato da Roberto Maier, docente di teologia nell’Università Cattolica e nel centro di spiritualità della Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale di Milano, ci dà le coordinate per orientarci nelle sue pagine. La custodia del senso raccoglie due testi di Jean-Luc Nancy, professore emerito nell’Università di Strasburgo, già docente a Berkeley, Berlino e San Diego: il primo, “Fare la poesia” (pp. 15-32), è una riflessione già pubblicata vent’anni fa in Nous avons voué notre vie à des signes, William Blake & Co., Bordeaux 1996; il secondo, “Fare i conti con la poesia” (pp. 33-64), è una conversazione con Pierre Alféri, poeta e figlio del filosofo Jacques Derrida, pubblicata per la prima volta da Alféri con il titolo di “La mécanique lyrique” nella Revue de littérature générale, n. 1, Parigi 1995.
A sottolineare i fili comuni tra i due testi, diversi per taglio e genere, Maier, nella sua ricca introduzione, sottolinea da subito “il difficile della poesia”. Per prima cosa, va smontata una idée reçue: non è poi così vero che viviamo in un’epoca di “chiacchiera”, heideggerianamente intesa; e anche se fosse, il dipanarsi del linguaggio, fluttuante e indefinito, anzi, infinito, che rende alla lunga le parole leggere, ha sempre accompagnato il discorrere degli uomini, pur gettandovi sopra un’ombra di “cattivo infinito”. Non basta puntare il dito contro i nuovi media: piuttosto, il vizio capitale tipico del nostro tempo sembra essere l’avversione per il difficile. Altro che omnia praeclara rara: oggi tutto ciò che è difficile deve essere censurato, rimosso, cancellato. Il difficile non c’è, non può esserci, non si deve nemmeno nominare: è tutto un tripudio di Easy learning, Easy-English, e così via: provate voi a vendere un “corso difficile di pianoforte”, suggerisce provocatoriamente Maier.
Il divieto del difficile si accompagna, poi, al facile invito a esprimere il proprio pensiero, sempre e comunque: è d’obbligo che tale libertà sia concessa; anzi, essa viene invocata e incentivata. Un tempo dire “È solo il mio modesto parere” era una sorta di reductio, di attenuazione, un mettere le mani avanti, quasi con imbarazzo. Oggi la premessa “È solo la mia opinione” è, invece, tutt’altro che una dichiarazione di umiltà: molto spesso, come rileva Maier, “il più delle volte è la pretesa di un palco e di un pubblico”, perché è come dire che all’opinione, qualche che sia, fosse anche “banale, volgare, carica di odio e di paura si deve garantire comunque diritto di espressione, indipendentemente dal suo contenuto, dai suoi presupposti, dagli argomenti e dalla capacità di offrirsi responsabilmente dal dialogo”. Ebbene, la poesia invece rifugge dal banale, dal “facile”: è difficile. Come spiega Nancy in modo piano e semplice, il valore della poesia sta proprio nella sua resilienza al dogma della “rimozione del difficile”.
Non bisogna poi confondersi: la nostra è l’epoca dell’easy, ma anche dell’eccellenza come mito; eppure, il “difficile” della poesia, il dono che porta in dote a questo come a ogni altro tempo, non ha niente a che fare con l’eccellenza, cioè con l’essere efficiente, performante, ottimale, pienamente adeguato alle richieste, tecnicamente completo e compiuto. Il “difficile” della poesia ha piuttosto a che vedere con l’esattezza. La poesia realizza esattamente l’accesso al senso, lo realizza perfettamente: fa il difficile, ci spiega Nancy, ma, facendolo, lo fa apparire bello, levigato, e quindi, paradossalmente, “facile”, con una specie di nobile sprezzatura. Di fatto, ricorda l’autore, la poesia nega che l’accesso al senso possa venire determinato come uno tra altri o uno paragonabile ad altri. Certo, la filosofia riconosce la poesia (e l’arte in generale), e, talora, la religione, come una via alternativa di accesso al senso: persino Cartesio riconosceva che in noi vi sono semi di verità, che i filosofi estraggono attraverso la ragione, mentre i poeti possono strapparli attraverso l’immaginazione, facendoli brillare con splendore ancora maggiore.
E se poi guardiamo l’etimologia del termine “poesia”, esso, derivando dal greco poiein, “fare”, ci dice come tutto il “fare” si concentra nel “fare poesia”, nel fare che ha come esito “l’eccellenza della cosa fatta” (p. 27): così, fare è dire e dire è fare.
Il discorso, come si vede, conduce a vette non da poco: parimenti, fascinosamente ardua, in puro gusto francese, è la seconda parte del volumetto, ovvero il colloquio fra Nancy e Alféri, che sviscera ancora il tema della poesia come “organo dell’infinito” (p. 36), nonché come arte che gode del temibile privilegio di essere considerata la più artistica delle pratiche letterarie, ma, a volte, anche la più arbitraria delle pratiche artistiche. Tante sono le suggestioni aperte dalla Custodia del senso, e non tutte trovano qui, come è naturale, una risposta secca e precisa: è uno dei meriti di questo libro, esile se guardiamo al numero di pagine, ma denso e importante per i temi che affronta.
Jean-Luc Nancy, “La custodia del senso. Necessità e resistenza della poesia”, a cura di R. Maier, EDB, Bologna 2017, 64 pp.