Quanti studenti, che hanno più o meno “toccato” I promessi sposi durante il loro percorso scolastico, hanno letto la conclusione del romanzo? Un sondaggio in questo senso sarebbe interessante e rivelatore. Ma anche senza sondaggio, prevedo una percentuale molto, molto bassa. La domanda non è oziosa. Chi, andando a vedere un film, si accontenterebbe di andarsene dieci minuti prima della scena finale? Nessuno, ovviamente, perché sapere come va a finire una storia è un bisogno del tutto umano.
Con il capolavoro di Manzoni, però, questa regola non vale: è come se tutti abbandonassero la sala cinematografica, quando va bene, almeno mezz’ora prima della parola fine. Qualcuno la abbandona dopo il primo quarto d’ora.
Cosa rivela questo dato? Che a chi insegna importa altro. Il romanzo diventa allora un pretesto per noiosi esercizi di riassunto, con relativa divisione in macrosequenze e sequenze (e relativa classificazione tipologica). Oppure il testo viene analizzato riga per riga, sminuzzato, alla ricerca di figure retoriche da riconoscere e da identificare. Con questi presupposti è già tanto arrivare, a fine anno scolastico, all’ottavo capitolo. Col risultato che nessuno leggerà mai le righe finali, il famoso “sugo” della storia a cui Manzoni teneva tanto.
Andreste mai a vedere un film con qualcuno che ti ponesse questo tipo di condizioni? No, certamente. Ma gli studenti italiani questo tipo di martirio non lo possono evitare. Nozionismo e tecnicismo. Questi i grandi mali della scuola italiana. Mali che fanno più male se costantemente riversati su materie vive, quali la letteratura. Sono il cancro, il perverso habitus mentale che riduce un incontro autentico con una realtà viva (il testo) a quattro cosucce studiate e mandate a memoria. Nozionismo e tecnicismo sono in fondo una scorciatoia facile e non veramente impegnativa. E’ come se, nell’incontrare qualcuno, ci si basasse solo su quanto altri ti hanno detto di lui, senza fare la santa fatica di osservarlo, di ascoltarlo, di porgere la dovuta attenzione, di penetrare, per quanto è possibile, nel suo cuore.
Ho visto aleggiare lo spettro del nozionismo, va da sé, stando in commissione d’esame. C’era una docente di latino che faceva a tutti i suoi studenti la stessa, benevola domanda: “Durante l’anno abbiamo letto il Satyricon di Petronio e l’Asino d’oro di Apuleio. Quale dei due hai preferito e perché?”. Dopo avere ascoltato le risposte del terzo-quarto studente, mi si è spalancata davanti un’atroce realtà: una volta espressa la propria preferenza, quando si trattava di motivarla, tutte le risposte si assomigliavano! Come mai? Semplice: i ragazzi non esprimevano un giudizio a partire da un incontro vivo con quei testi, ma ripetevano nozioni (che ovviamente erano uguali per tutti).
Nessuna originalità. Nessuno che dicesse cosa l’aveva coinvolto, provocato, magari disgustato o davvero divertito. Nessuno che citasse un episodio. Nozioni e basta. Il Satyricon è bello perché ribalta il modello del romanzo greco. L’avrò sentito almeno trenta volte! Ma cosa ci sia di bello a parodiare una bella storia d’amore tra due ragazzi che rimangono fedeli nonostante tutto e tutti, nessuno dei trenta l’ha detto. Cos’è accaduto? La nozione è stata passivamente assunta al posto del proprio giudizio. I giovani, ingozzati di nozioni, vomitavano nozioni.
Sono stato tanto sfortunato da incappare in una classe di scarso livello? Non credo. Ritengo anzi che il campione che avevo davanti rappresentasse molto bene quanto si incontra e si vede nelle aule scolastiche della Repubblica italiana. Le eccezioni ci sono, esistono sicuramente, ma confermano la regola. Al vecchio nozionismo si è aggiunto, o sostituito, un tecnicismo non meno distruttivo. Il virus viene inoculato da subito e diventa più invasivo man mano che si sale nei gradi di istruzione. E la responsabilità di continuare a trattare gli studenti come oche da ingozzare è tutta di noi docenti.
Dovremmo pretendere meno nozioni e più coinvolgimento. Leggere poco, ma leggere bene e insieme. Rigettare la tentazione dell’enciclopedismo inutile e di seconda mano. Che senso ha conoscere lo schema del ciclo dei vinti di Verga e poi non aver mai vibrato davanti ad una sua pagina? Che senso ha conoscere lo schema dei Canti Orfici di Campana e non aver mai percepito la tensione che pervade tutto il testo di una lirica come La Chimera, dal primo all’ultimo verso, fino a quel commovente e struggente finale (“E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera”) che il “poeta notturno” ci butta addosso come il grido del suo cuore? Che senso ha sfiancarsi sull’analisi dei punti di vista della narrazione nei primi capitoli dei Promessi sposi e non curarsi di quelle righe finali, nelle quali Manzoni ha concentrato tutto il senso della sua fatica di scrittore?
La scuola sembra funzionare in modo esattamente contrario all’essere umano. Sembra quasi armata contro l’essere umano. L’uomo funziona in modo molto semplice: subisce il fascino di qualcosa, vive questo fascino e solo in un secondo momento sente il bisogno di mettere a fuoco, di saperne di più (e vorrà saperne di più quanto più avrà percepito il fascino); è, questa, una dinamica applicabile a tutto: all’incontro con la ragazza, alla passione per quel campione o quello sport, al gruppo musicale o al cantante, alla macchina da corsa… Il primo passo è sempre quello di un coinvolgimento totale della persona. Per le nozioni, le informazioni, i tecnicismi c’è sempre tempo. A scuola si fa esattamente il contrario: si parte dalle informazioni e non ci si cura mai del fascino.
E’ una logica disumana. Resa ancor più stringente dall’ossessione di “fare il programma”, che dovrebbe essere stata abolita, se non fosse poi che gli studenti vengono verificati sempre e solo a partire dalle nozioni del “programma” (il narratore manzoniano, il ciclo dei vinti di Verga, la struttura dei Canti Orfici di Campana, i drammi del metateatro di Pirandello, la parodia del romanzo greco nel Satyricon…). E quando provi a chiedere loro qualcosa di più, ti rispondono con le nozioni, con i giudizi di seconda mano tratti dal loro libro di testo.
Pensiamoci, mentre ci prepariamo a tornare in classe. Possiamo cambiare, possiamo provare con un approccio più umano, più libero, più coinvolgente. Faremo il bene dei nostri ragazzi (e anche il nostro).