Shakespeare, ormai, avrà anche smesso, abituato a registi che tagliano, allungano, alterano i suoi drammi, di rivoltarsi nella tomba. Perché, giustamente, ogni vera opera d’arte si apre a diverse interpretazioni. Potremo tutt’al più discutere se sia opportuno (come accadde a fine Seicento) trasformare Antonio e Cleopatra in un melodrammone d’amore, oppure (com’era di norma nel Settecento) affibbiare un lieto fine al Re Lear. Il confine tra interpretazione e rifacimento può essere labile; comunque sia, per quanto numerosi critici attribuiscano al Macbeth di Justin Kurzel paroloni come “adattamento rigoroso” e addirittura “canonico”, siamo in diversi a non avervi visto molto Shakespeare.
Innanzitutto, pare che gli immensi spadoni da guerra abbiano tranciato, insieme alla vita di re Duncan, anche almeno la metà delle battute shakespeariane; il che lascia spazio a interminabili, pesanti silenzi. Quel che resta delle voci umane è spesso sussurrato, sincopato, oppure coperto da rumori e musica ossessiva, al punto che chi già non conosce la trama non riesce facilmente a capire cosa stia accadendo e perché.
È una storia impastata di sangue e fango, a partire dalla scena della battaglia, dove i corpi feriti rilasciano fiotti rossi ripresi a rallentatore. Sangue e fango sui volti, sulle mani, sugli abiti, tra i capelli.
Abbiamo, in apertura, una scena del tutto nuova: il commovente funerale dell’unica figlioletta di Macbeth. Se, da una parte, questo può aiutare gli spettatori a identificarsi (come in ogni vera tragedia) almeno parzialmente con il protagonista, a volerne in parte giustificare l’insoddisfazione e la sete di sangue, non si capisce però perché quella bambina subito ricompaia insieme alle tre streghe, né si spiega la sua intenzione di nuocere ai genitori precipitandoli in un abisso di morte e dannazione. L’unica possibilità che mi viene in mente è che l’aldilà sia uguale per tutti, inferno per tutti, bimbi innocenti e inveterati assassini, e che la bambina voglia ricongiungersi presto a mamma e papà. Cosa poi ci faccia un neonato tra le braccia di una delle tre streghe non è dato di sapere.
Se il Macbeth shakespeariano è sempre in corsa contro il tempo, qui la corsa si fa precipitosa e i ritmi incalzanti, come se tutti gli eventi, invece che in diversi anni, si concentrassero in pochi giorni. Quanto al fantasma di Banquo, l’amico trucidato, pare la statua di un orco, immobile e col viso tutto nero: Macbeth non può certo accusarlo di “scuotere i suoi ricci sanguinolenti verso di lui” come invece aveva fatto, anche troppo graficamente, quello di Polanski (1971), che a mio avviso resta la produzione migliore. E in ogni caso quel fantasma perde quasi importanza, tra i tanti aggiunti dal regista australiano.
A favore della pellicola giocano senz’altro la bravura di Michael Fassbender e Marion Cotillard, insieme ai grandiosi paesaggi scozzesi, mai attraversati da un raggio di sole, che dominano e quasi schiacciano i personaggi. Né mancano sprazzi di bellezza. Come durante l’uccisione di Banquo, quando il piccolo Fleance, distrutto dal dolore, riesce a fuggire, in quella che è definita dalla studiosa shakespeariana Katherine Duncan Jones “a lovely cameo performance”. Sullo stesso filone, è commovente l’amore di Banquo e di Macduff per i rispettivi figlioletti, bersagli dell’ira del tiranno. Invece che “passati a fil di spada”, però, la moglie e i figli di Macduff vengono arsi sul rogo (peccato che la battuta shakespeariana sia rimasta). Altro momento sublime è quello in cui, subito dopo la morte della moglie, Macbeth ne solleva il corpo tra le braccia per recitare il famoso soliloquio (“Tomorrow, and tomorrow, and tomorrow…”).
Ma che dire di una Lady Macbeth che, nella sua follia, invece di aggirarsi nuda e allucinata per la stanza e gemere al vedere le proprie mani sempre sporche di sangue (come mirabilmente accade nella versione di Polanski), si accascia al suolo fissando la telecamera, mentre le mani di cui parla sono interamente fuori campo? Nella sua follia, dice di udire qualcuno che bussa al portone del castello, ma in Kurzel non esistono né portone, né castello, e il bussare cui ella si riferisce appartiene a un’altra scena espunta, quella, comica e agghiacciante al tempo stesso, del portiere ubriaco convinto (giustamente) di andare ad aprire la porta dell’inferno.
Il bel castello di Macbeth, infatti, Inverness, non è qui che una specie di tendopoli rizzata attorno a una chiesetta di legno: re Duncan e il suo seguito sono intrattenuti in un banchetto all’aria aperta (come nell’ultima cena del film Jesus Christ Superstar), esposti alle intemperie a al vento sferzante che pare abbia reso necessario registrare i dialoghi in un secondo tempo. Per fortuna abbiamo almeno il castello reale di Dunsinane…
Anche il finale è ambiguo: dopo un lunghissimo, sanguinosissimo duello contro Macduff, Macbeth rimane fermo, inginocchiato, col busto eretto, presumibilmente morto. Il figlioletto di Banquo, Fleance (destinato in Shakespeare a diventare il progenitore degli Stuart), prende una spada e fugge, mentre il nuovo re, il buon Malcom, afferra anch’egli una spada e si lancia…? Dove? All’inseguimento del bambino, per impedirgli, proprio come aveva cercato di fare Macbeth, di impossessarsi del trono?
Secondo il giornalista Nicholas Barber, “Kurzel fa tutto il possibile per trasformare ogni singola scena in una scena da incubo, che si tratti di includere una processione di zombi (sì, zombi!) o cambiare radicalmente la profezia sul bosco di Birnam”. Di fatto, l’intera profezia delle streghe è tagliuzzata e il sabba del tutto eliminato. “Quello che manca nell’audace dramma di Kurzel è la sensazione che qualcuno o qualcosa stia cambiando. Non ci sono luci ed ombra: di fatto, non c’è luce”.
Conclude, impietoso, il blogger McElhearn, “È Shakespeare riveduto e corretto per l’età dei Troni di Spade.Senonché, Troni di Spade è molto più interessante”.