Professor Berlinguer, le scuole e ancor più le università non hanno pace: lo scontro con il governo si fa sempre più intenso, e il presidente del Consiglio ha parlato di problemi di ordine pubblico da risolvere con l’intervento delle forze dell’ordine: qual è la sua opinione su questa situazione?
L’articolo 166 del testo unico universitario del 1933 – siamo nel cuore del regime fascista – afferma che spetta ai rettori la vigilanza dei locali universitari, la funzione di responsabile dell’ordine pubblico all’interno e stabilisce che alle dipendenze del rettore gli impiegati dentro i locali costituiscono «un corpo di polizia interna». Il regime fascista, così irriverente verso la cultura, rispettava un principio di autonomia universitaria. Nei lunghi anni in cui i miei colleghi ed io abbiamo retto le università, ci siamo riferiti a questa norma per risolvere le questione dell’ordine pubblico interno nel modo più pacifico possibile. Io non ho mai chiamato la polizia nel mio ateneo.
Eppure problemi d’ordine pubblico negli ultimi giorni si sono visti…
Il problema non è di ordine pubblico, e ho timore che calcare la mano su questo fronte possa accentuare la tensione che c’è oggi nelle università. Persino il ministro Maroni non mi sembra insensibile a questo ragionamento. Qual è il vero problema? Che bisogna assicurare il diritto a manifestare e ad esprimersi, ma bisogna al contempo richiedere che questo avvenga pacificamente.
E se gli intenti di chi manifesta non sono pacifici come si ottiene il ristabilimento dell’ordine?
Per quella che è la mia esperienza, dico che occorre una grande capacità di dialogo con gli studenti, perché all’interno del mondo studentesco prevalgano le forze democratiche e pacifiche. Non devono prevalere le frange violente, che certo esistono. Sinteticamente: il dissenso è legittimo, la violenza no.
Insisto: non c’è solo la violenza dei teppisti, c’è anche la violenza di chi impone a tutti di interrompere le lezioni e bloccare l’attività accademica. Bisognerà pur permettere a chi lo desidera di continuare con la normale vita universitaria.
Se si tratta di una forma molto indiretta di sciopero, che vuol dire non partecipare o chiedere che ci sia un periodo molto breve e circoscritto in cui tutta l’attenzione venga concentrata sulla discussione delle politiche universitarie, non trovo che sia una cosa fuori dal mondo. Bisogna solo evitare che questa situazione si prolunghi. Sul fatto di non bloccare gli altri studenti, anche qui interviene la saggezza dei rettori e dei presidi: si trovi un locale dove si svolgono le lezioni, e uno dove si svolgono le manifestazioni. Quando ero rettore a Siena, c’era una ragazza del Msi che voleva entrare per seguire le lezioni, mentre i manifestanti bloccavano l’accesso, in particolare a lei, nota per essere militante del Msi. Io sono andato nella facoltà e ho accompagnato personalmente la ragazza nel luogo dove doveva entrare.
Cambiamo argomento: i tagli. Ritiene anche lei che se il governo darà seguito a quanto previsto dalla legge 133 la nostra università sarà destinata nel giro di pochi anni a fare bancarotta?
Dico che oggi il problema più urgente per l’università e la ricerca sono i finanziamenti, e non il contrario. Siamo infatti quasi sulla sponda africana al cospetto dei paesi evoluti in tema di quantità di finanziamento alla ricerca e all’insegnamento. Guardiamo i dati: la spesa totale per la formazione universitaria rispetto al Pil vede l’Italia all’ultimo posto in Europa con lo 0,9%, contro una media dell’1,3%; la quota dell’intera spesa pubblica dedicata alla formazione universitaria è dell’1,6%, in Europa è il 2,8%, in Danimarca e Finlandia spendono addirittura il 4,5%. Questo dice che l’Italia ha una spesa pubblica elevata, ma non nel campo universitario. La spesa per studente: l’Italia è al 13° posto in Europa con 8.026 dollari annui per studente, la media europea è 10.474, la Svezia arriva a 15.976 dollari per studente. Poi abbiamo un numero di laureati basso: nella popolazione tra i 25 e i 64 anni siamo fermi al 13%, contro una media del 24%, e la punta della Danimarca del 35%.
Quindi è politicamente sbagliato porre l’accento prima sugli sprechi. Ho il timore che ci sia sul tema della valenza civile ed economica della ricerca una insensibilità ingiustificata. Noi stiamo perdendo posizioni nel mondo proprio a seguito di questa contrazione.
Però non si può certo dire che non ci siano sprechi nell’università italiana.
Gli sprechi ci sono, anche nella ricerca, ma non sono tali da diventare il primo problema. Ci sono nella didattica, nel senso che sono proliferate dependance universitarie nei luoghi più sperduti. Bisogna riconoscere che il ministro Mussi ha cercato di porre un freno a questo fenomeno, e che la Gelmini ha dichiarato di voler continuare in quella direzione: ma si circoscriva il problema, lo si individui. Il messaggio che è venuto fuori invece è che il primo problema è tagliare. Non è così: il problema è introdurre profondi cambiamenti che portino a risparmiare.
Altro cavallo di battaglia di chi protesta è il rischio privatizzazione, in riferimento alla possibilità per gli atenei di trasformarsi in fondazioni: cosa ne pensa?
È una soluzione che può avere due letture sbagliare: una lettura salvifica, che mi pare illusoria; e una lettura diabolica, per cui il privato è sempre qualcosa di brutto. I sistemi universitari sono di vari tipi, e ci sono sistemi – e sono quelli che ora funzionano meglio – in cui la maggioranza delle università è privata nella gestione. Come si fa a lanciare un anatema contro soluzioni adottate da Paesi che hanno i livelli di ricerca più alti nel mondo? La discussione è dunque ideologica e intrisa di ignoranza, ed usa formule che spaventano soltanto perché demonizzano, non perché documentano.
Vediamo allora nel merito la norma della legge 133 sulle fondazioni: c’è chi la critica in senso contrario come norma incompleta, rispetto ad esempio alla più completa proposta di legge di Nicola Rossi sullo stesso argomento.
Sono convinto anch’io che il modo con cui la proposta è stata formulata dal governo rischi di non portare a nessun risultato, perché troppo vaga e generica. In secondo luogo, rispetto a possibilità di questo genere le università devono essere messe in grado di convincersene, di sentirle proprie, di vederne chiaramente i rischi e soprattutto i vantaggi. Il problema invece è che non si sa bene che cosa sia questa proposta. Nicola Rossi aveva fatto la propria proposta in modo più colto, com’è da par suo; ma anche lì ho il timore che ci sia dietro una visione un po’ salvifica.
Quali sono secondo lei le altre emergenze della nostra università?
L’altra emergenza, dopo quella finanziaria, è duplice: governance e valutazione. Sulla governance la situazione è drammatica. Gli organi di autogoverno sono sensibilmente peggiorati e sono diventati solo rappresentativi delle articolazioni interne e casse di risonanza di microinteressi di corpo. Non hanno direzione strategica, e quindi non hanno la capacità di meritarsi l’autonomia, che è innanzitutto responsabilità. Bisogna avere un enorme coraggio per intervenire su questo, perché qualunque provvedimento sulla governance scatena un putiferio dentro l’università. Ma non si può trovare altra strada; e la soluzione deve arrivare dalla politica, perché il mondo accademico per come è oggi tende a conservare lo status quo. Il centrosinistra attraverso il prof. Modica e altri ha presentato idee giuste; nel centrodestra, in particolare nelle intenzioni del ministro, ci sono queste ipotesi. Bisogna dunque trovare un terreno di intesa perché si arrivi a un esito importantissimo: distinguere l’amministrazione dal senato accademico.
C’è qualche modello da seguire per attuare questo cambiamento degli organi accademici?
Dobbiamo guardare ancora al mondo anglosassone, perché quello continentale, che pure ha avuto un grande passato, soffre ora di un eccesso di statalismo. L’Europa continentale ha considerato l’università solo come presenza accademica; il mondo anglosassone, invece, ha previsto nei suoi boards la distinzione tra due diverse realtà: l’amministrazione strategica, che non è accademica ma espressione degli interessi degli stakeholders, cioè di tutto l’ambiente esterno che vive dei vantaggi che l’università produce, che ha bisogno dell’università, e che paga; e poi la gestione accademica, che deve avere tutta la sua espressione di potere, ma solo per gli aspetti accademici, scientifici, didattici, non per le strategie. Ma ripeto che un governo, di qualunque parte esso sia, da solo non riuscirà mai a fare una cosa del genere: bisogna trovare un terreno comune tra maggioranza e opposizione. Terreno che per altro mi pare ci sia già.
Accennava poi al problema della valutazione.
Sulla valutazione ora è tutto fermo. Ma anche su questo ritengo indispensabile l’intesa politica. È convinto il governo che questa sia una questione fondamentale? Sembra proprio di sì. È convinta l’attuale opposizione di dover lavorare su questo? Certo, visto che ha addirittura costituito una struttura per la valutazione. Non si è convinti dell’una o dell’altra struttura? Se ne trovi una comune, molto agile, poco burocratica, e indipendente sia dal potere esecutivo, sia dalle baronie. E poi si cominci finalmente a valutare, sia il sistema, sia i singoli atenei, sia i dipartimenti e le strutture interne, sia la produttività scientifica e/o didattica. Gli altri paesi lo fanno da tempo. Quindi ritengo utile lanciare una sorta di appello alla politica.
Quale?
Perché non si prendono questi due problemi (la valutazione e la distinzione tra didattica e amministrazione strategica) e non li si fa diventare terreno di incontro? Sul resto le forze politiche spingano la dialettica fino al massimo, se vogliono: ma si facciano salvi questi due punti, per salvare il nostro sistema universitario.