Non è possibile ridurre lo stillicidio dei fatti di cronaca che ci parlano di assassini di donne e di suicidi che trascinano con sé i propri famigliari, ad una semplice percezione distorta della realtà, provocata magari dall’eco mediatico suscitato dai fatti di cronaca. Come se simili eventi siano sempre esistiti e, in un modo o nell’altro, nulla di nuovo appaia sotto il sole. Una simile lettura è semplicemente riduttiva e non vede l’ampiezza del problema che vi sta alla base.
Certamente si tratta di casi singoli, e questo non solo perché sono sempre e comunque fatti isolati, ma anche perché chiamano in causa variabili di ordine psichico, facendo così entrare in gioco le fragilità personali delle singole persone più che le derive collettive di aree sociali, gruppi o fasce d’età. Eppure, almeno per tutti coloro che hanno memoria dei decenni passati, non c’è dubbio di quanto una tale proliferazione di violenze al prossimo, completamente sganciate da qualsiasi attitudine criminale o terroristica, ma collegate invece alla dimensione della relazione immediata e significativa con le persone amate, sia un fatto in gran parte inedito, almeno nella frequenza con la quale si presenta. È per queste ragioni che delle spiegazioni vanno comunque cercate.
Non si uccide infatti per procurarsi un guadagno illecitamente, né tanto meno per vendetta passionale verso un tradimento coniugale. In molti casi l’abbandono della relazione non ha ancora presenze alternative consolidate. Al posto di questi fattori sembrano invece emergere, molto più spesso di quanto non sembri, dei progetti spezzati, delle interruzioni di un cammino di vita percepite come irreparabili o comunque insopportabili. È in conseguenza di queste fratture che il protagonista aggredisce con violenza l’altro, quasi sempre la convivente, moglie o fidanzata, ritenuta responsabile. Oppure, come nel triste caso di Francavilla (ma fenomeni analoghi si contano oramai a decine) pone fine alla sua vita trascinando con sé i propri familiari.
Perché le fragilità personali emergono in modo così vistoso? Perché gli equilibri spezzati (per un minacciato abbandono, per un rovescio economico, per la fine di un progetto di vita) degenerano così spesso in strade di non ritorno e, soprattutto, in comportamenti omicidi? Perché le relazioni significative vengono investite e travolte da una simile volontà distruttiva?
Le spiegazioni sono molteplici. Tuttavia ce n’è una che sembra rivelarsi particolarmente significativa. Questa è costituita dal primato dei progetti privati, portati avanti “in solitaria”, senza la presenza di quelle reti di amicizia concreta e di confidenza profonda che si rivelano preziose per affrontare i momenti di crisi. I soggetti autori di comportamenti violenti si caratterizzano spesso per essere percepiti come delle “brave persone”; sono cioè circondati da una percezione positiva o comunque “non problematica” da parte dei conoscenti e del vicinato. Il percorso di vita che questi soggetti vivono è completamente interiore, privato. Si tratta di un percorso che, quando ha successo, è presentato da costoro come un’opera personale e costituisce la prova provata delle loro capacità e dei loro meriti.
È il mondo di chi ritiene di “essersi fatto da solo” o almeno vuole che gli altri lo percepiscano in tal senso. Si tratta di altrettanti “guerrieri” che vivono la loro battaglia personale con la vita e il destino, ritenendo di poterci riuscire, con le loro sole capacità e l’aiuto di una buona sorte della quale sanno prevederne le mosse.
In un atto omicida c’è sempre un delirio di onnipotenza, anche quando la violenza la si rivolge contro se stessi. Si ritiene che nessuno possa intervenire o che comunque la propria battaglia personale sia irrimediabilmente persa. I nostri connazionali che scelgono una tale violenza, preferiscono affondare con la nave della loro vita, piuttosto che accettare consigli e mani tese. E se sulla loro nave ci sono anche i propri famigliari, allora vuol dire che anche per quest’ultimi il fallimento è certo, in quanto sono essi stessi parte integrante del progetto.
Ovviamente in casi come questi ogni analisi è sempre parziale. Tuttavia non c’è dubbio che il corto circuito tra una visione della vita interamente giocata sul fronte delle proprie capacità personali e la messa a distanza degli altri, in quanto percepita come il riconoscimento di un bisogno che rivelerebbe implicitamente la propria debolezza, costituisce in realtà una miscela esplosiva. Le vite riservate, in altri termini, quelle che non si declinano in relazioni di solidarietà, sono spesso dei nascondigli di tensioni irrisolte.
Questi individui che si giocano il tutto per tutto, annettendo a sé l’intera famiglia sulla quale finiscono per detenere il diritto di vita e di morte, costituiscono, nella loro intrinseca fragilità, l’area più estrema di un individualismo autoreferenziale che — come più volte si è segnalato — si rivela essere una delle componenti non secondarie dell’ethos che si respira nella società contemporanea. Una società di individui solitari è una società profondamente fragile. Non è un caso che, proprio in questa nostra epoca, si moltiplicano per tutta risposta associazioni di qualsiasi tipo e spesso, all’interno di queste, prendono vita nuove relazioni, nuove solidarietà che arricchiscono la vita di chi le condivide. È la strada alternativa, quella che libera il soggetto dalla percezione di poter bastare a sé stesso e di non dovere nulla agli altri