Come si raggiungono le certezze nelle teorie scientifiche? È una domanda interessante, alla quale scienziati e filosofi continuano ad aggiungere pezzi di risposte e il cui interesse va oltre quello degli addetti ai lavori, in quanto tocca motivi più profondi legati al più generale processo di conoscenza e al rapporto uomo-realtà.
L’immagine più diffusa, e meno corrispondente alla reale esperienza di chi fa scienza, è quella un po’ magica dello scienziato che esce trionfante dal laboratorio impugnando i risultati di un esperimento che gli darebbero la certezza delle tesi da lui proposte per spiegare un fenomeno naturale. Nella maggior parte dei casi invece la certezza avviene come convergenza di risultati e di conferme che si verificano in ambiti diversi e distribuiti nel tempo. Più che il singolo dato che sancisce l’esattezza di una legge, è un insieme di dati, di fenomeni, di situazioni che, a partire da quella teoria, acquistano via via una loro spiegazione convincente e portano a disegnare un quadro generale sempre più chiaro e coerente.
Per molti scienziati poi c’è un livello di certezza che viene ancor prima della prova e risiede in un’intima convinzione che quella sia l’unica ragionevole spiegazione per quel particolare comportamento della natura. È in base a questa certezza, più intuita che provata, che lo scienziato accetta il rischio di esporre la sua teoria, mandando un articolo alle riviste scientifiche di riferimento e presentandone i particolari in congressi e seminari; dichiarando la propria disponibilità a tornare sui suoi passi se la realtà dovesse dare risposte differenti e alternative.
È stato così per Eistein che ha pubblicato “I fondamenti della teoria della relatività generale” sugli Annalen der Physik nel 1916, ben prima di aver in mano dei risultati sperimentali. Le prime conferme della sua teoria, che ridefiniva l’idea di gravità associandola alla geometria dello spazio-tempo, sono arrivate qualche anno dopo: come quella del maggio 1919, quando Arthur Stanley Eddington misurò la curvatura della luce stellare (1.7 secondi d’arco) durante un’eclisse totale di Sole.
Ma ancora oggi la relatività einsteiniana è oggetto di verifiche e controlli e proprio in questi giorni è in corso di pubblicazione sulle Physical Review Letters un articolo che riporta i risultati di una missione spaziale lanciata allo scopo di testare la stessa teoria. Si tratta dell’esperimento Gravity Probe B, ideato e gestito dalla Stanford University e dalla Nasa. La sua vicenda è eloquente per illustrare quanto detto sopra circa le prove sperimentali: l’esperimento è stato ideato 31 anni fa dall’astrofisico Francis Everitt, quando non c’erano ancora gli strumenti per eseguirlo; ci sono voluti 10 anni di preparazione del volo, la missione è durata un anno e mezzo e i fisici sono stati impegnati per 5 anni nell’analisi dei dati.
Da notare che è stato proprio dallo sviluppo delle tecnologie necessarie a Gravity Probe B che sono nati gli strumenti che hanno reso possibile la realizzazione dei sistemi GPS, che oggi usiamo quotidianamente per una varietà di servizi di localizzazione.
Ma cosa voleva verificare Everitt e che cosa hanno trovato gli scienziati della Nasa?
L’obiettivo della missione era di misurare due aspetti della teoria gravitazionale di Einstein: l’effetto cosiddetto geodetico, cioè la deformazione dello spazio-tempo che si verifica attorno a un corpo per effetto della sua massa; e l’effetto di trascinamento, in base al quale la Terra con la sua rotazione distorce lo spazio-tempo locale. Va notato che questo secondo effetto non aveva mai registrato fino ad allora nessun tipo di misurazione diretta.
La sonda, in orbita a 642 km dalla superficie terrestre, era equipaggiata con quattro giroscopi ad altissima precisione e un telescopio; i giroscopi erano raffreddati con elio superfluido a una temperatura inferiore ai 2 gradi sopra lo zero assoluto, così da ridurre al minimo ogni effetto di disturbo e da consentire ai loro componenti in piombo e niobio di diventare superconduttivi. Se non ci fossero effetti relativistici, gli assi dei giroscopi punterebbero sempre nella stessa direzione, indicata dalla posizione della stella IM Pegasi, una stella binaria nella costellazione di Pegaso. Invece sono stati misurate piccolissime, ma significative, variazioni dei loro assi e tali variazioni sono del tutto compatibili con le previsioni che si possono ottenere dalle equazioni di Einstein.
Le deviazioni angolari misurate sono di poche migliaia di millisecondo d’arco e, per il primo dei due effetti, quello geodetico, i valori misurati sono di poco sopra il 4% in più dei 6606,1 millisecondi d’arco previsti dalla teoria della relatività generale. È stato lo stesso Everitt a spiegare in modo efficace cosa rappresenti un valore simile: un millisecondo d’arco è l’angolo sotto il quale si vede lo spessore di un capello umano da 16 chilometri di distanza.
E fa riflettere il fatto che la certezza circa una teoria così importante e di portata cosmica, sia legata a un accertamento osservativo così sottile e impercettibile.