Sto bevendo un caffè al bar quando vedo entrare un vecchio amico, impegnato da sempre in una cooperativa sociale. Ha appena avuto un’ispezione dell’Asl ad una comunità di recupero, con relative prescrizioni di adeguamenti strutturali e relativi costi imprevisti.
È scuro in volto, perché gli mancano i soldi e i lavori, a suo parere, sono superflui. Mi rivolge due frasi di circostanza e poi sbotta: “È da un pezzo che non credo nella rivoluzione, ma a volte, di fronte a situazioni così, viene istintivo ribellarsi! A vent’anni leggevo Lotta Continua e andavo alle manifestazioni gridando: ‘Lo Stato borghese si abbatte, non si cambia’. Poi ho lasciato perdere l’idea di abbattere lo Stato e ho cercato di cambiare la vita dei poveracci che incontravo…”.
Al mio amico trema un poco la voce, e non riesco a capire se è ancora per la spesa imprevista o per i ricordi lontani che riaffiorano.
“A proposito — mi dice — guarda cosa ho appena trovato, riordinando vecchie carte per un trasloco”.
Tira fuori dalla borsa la pagina di un vecchio numero di Lotta Continua: “Adesso va di moda parlare del ’68 e di quel che è seguito. Leggila e non perderla. Me la rendi alla prima occasione, così ci rivediamo e facciamo due chiacchiere”.
La sera leggo con calma la pagina del giornale. Contiene la lettera commovente di un militante della sinistra extraparlamentare. Parla di Roberto, un amico che non c’è più, dopo una vita fatta di verità e tragici errori, ideali e ideologia. Ecco il testo, pressoché integrale.
“Scrivo queste righe perché un nostro compagno si è suicidato. Purtroppo fatti come questi sono sempre più frequenti: non fanno neanche più notizia. Ma quando muore un ragazzo con cui hai lottato e ti sei divertito insieme, non puoi fare a meno di restare sgomento e di provare un tardivo senso di colpa. E’ vero che quando si muore così non si può neanche gridare ‘poliziotti assassini’. Ce l’avevamo immaginata diversa la morte di un nostro compagno: ucciso dai fascisti, dalla polizia e noi in piazza a gridare la nostra rabbia, a sfogare il nostro dolore. Certo anche Roberto è stato ucciso dal nemico, dal più malvagio di tutti: da questa sporca società in crisi. Ma morire così, da solo, in una giornata d’agosto, in un’auto piena di gas di scarico… No! Anni fa pensavamo che la rivoluzione fosse lì dietro l’angolo ad attenderci cortese e sorridente. Si avanzava decisi verso lo ‘scontro decisivo’. Ma molti ‘scontri decisivi’ passavano e tutto pareva rimanere immutato. Quel piccolo ritardo, irrilevante sul calendario della storia, diventava per alcuni la misura di un fallimento. In contrasto con questa esasperante lentezza, la nostra vita, quella sì, correva veloce e senza intoppi: ti toglieva la giovinezza, ti spingeva ad un lavoro che non c’era o in ogni caso quasi sempre ad un lavoro schifoso. Ma questa è solo la metà della storia. Se fosse solo questo sarebbe sufficiente dire che il nostro orologio politico andava troppo avanti… Questa morte non è il frutto del caso. Egli è morto anche perché siamo stati “disumani”, tutti noi, Roberto incluso, vittime di un certo modo di fare politica. Disumano è stato mandare allo sbaraglio i compagni davanti alle fabbriche; è stato il modo con cui si sono trattati i compagni “silenziosi” che non parlavano quasi mai alle riunioni, gli “stupidi” perché quando parlavano dicevano (male) due ore tre cose che parevano banali; disumani sono stati i piccoli e grandi leaders depositari del sapere e del potere: disumani sono stati i rapporti ai cancelli con gli operai che per noi erano di volta in volta o fonti di notizie, o lettori dei nostri volantini, o persone a cui spiegare la rivoluzione. Quanti sono i compagni persi per strada, allontanati da questo modo di fare? Chi ricorda i loro volti, chi ha mai conosciuto la loro storia? Roberto è morto ed è sciocco e retorico dire ora delle frasi tipo ‘lotteremo anche per lui’, ‘lo avremo sempre al nostro fianco’; è cinico affermare che bisogna fare che Roberto non sia morto invano: significherebbe trovare a questa morte orrenda una giustificazione a posteriori. Ma tra i tanti motivi che ci spingono a modificare il nostro comportamento politico e personale, c’è anche il desiderio che nessun compagno sia costretto più ad andarsene così: c’è il desiderio che tra la nostra splendida teoria piena di futuri paesi delle meraviglie e la nostra squallida pratica quotidiana non si lasci più aperto un varco così grande dove un uomo possa perdersi”. Un compagno di Roberto (Ivrea).
Leggo la lettera tutta d’un fiato e il pensiero corre a quel periodo. La sinistra extraparlamentare si era divisa: una parte gridava nelle piazze ed aveva il monopolio dei cortei e delle occupazioni nelle università; un’altra parte aveva abbracciato la lotta armata. Indro Montanelli era stato da poco gambizzato dalle Brigate rosse.
Si respirava un clima di paura e di preoccupazione di fronte al sacrificio violento e incomprensibile di tanti giovani, disposti a rischiare la galera e la morte, e ad usare i mezzi più ingiusti per costruire una società senza ingiustizie!
Mentre leggo e rileggo la lettera mi tornano alla mente le parole del poeta inglese T.S. Eliot: “…essi cercano … di evadere dal buio esterno ed interiore sognando sistemi talmente perfetti che più nessuno avrebbe bisogno di essere buono”.
L’amico della cooperativa sociale mi telefona dopo una settimana e combiniamo un incontro. Gli rendo la pagina della vecchia copia del giornale, che ripone subito con cura. “Allora, cosa ne pensi?” chede.
“La conoscevo”. Mi guarda sorpreso, mentre proseguo: “Sì, quella lettera aveva colpito anche il mondo cattolico, soprattutto gli studenti dell’epoca, toccati direttamente dagli eventi: non avevano più diritto alla parola nelle assemblee in università e — quelli di Comunione e liberazione — si vedevano devastare le sedi dagli extraparlamentari.
“E cosa dicevano? Avranno preso questa lettera come l’ammissione di una sconfitta”.
La domanda è semplice e diretta, ma richiede una risposta complessa. “Ti rispondo raccontandoti come ho vissuto io questa lettera, a Varese, dove abitavo all’epoca. Un giorno vengo a sapere che vari gruppi cattolici hanno organizzato un incontro pubblico sulla tragica vicenda raccontata dalla lettera. È chiamato a condurre la serata l’assistente di Comunione e liberazione. Gli interventi si susseguono. Di fronte ad una vita spezzata nessuno ha voglia di interpretare, nemmeno per una volta, il ruolo del vincitore sulla parte avversa. Molti commentano i vari passaggi: la lettera è ricca di spunti per un cattolico, magari ancora legato agli scout o alla parrocchia. Sono presenti anche diversi ciellini, da tempo malmenati dagli extraparlamentari ad ogni volantinaggio, inclusi quelli con a tema la Pasqua o il Natale. Nessuno fa cenno ai soprusi di cui è stato vittima. Il prete di Cl ascolta tutti, senza interrompere nessuno. Quando finiscono gli interventi, si avvicina al microfono. Premette che non intende procedere a una sintesi o trarre delle conclusioni: ‘Voglio fare soltanto l’ultimo intervento della serata: poche considerazioni, che vi chiedo di confrontare con la vostra posizione personale. Parto da una constatazione. L’ideale cristiano ti fa vivere il centuplo quaggiù in vista della vita eterna. La verità parla a me, oggi: il presente è anticipazione del futuro. L’ideologia non risponde alle mie esigenze del presente ma a quelle, presunte, della società futura. Il vuoto di oggi è riempito dalla lotta per il domani: ma le mie domande di senso e di felicità non aspettano. Il mio presente non ha risposte e il futuro della società si trasforma col tempo da immagine a miraggio. Ecco dove nasce la tragica delusione: ciò che si è già rivelato menzogna per il mio presente appare come possibile menzogna per il futuro della società. Questa è, in estrema sintesi, la storia dell’extraparlamentare Roberto. E la nostra storia? Ho ascoltato le osservazioni giuste — tutte giuste! — di stasera. Ma vi prego di chiedervi, tornando a casa: ho abbracciato la Verità che, senza meriti, mi è venuta incontro nel presente? Provo pietà per Roberto, che non l’ha incontrata?”.
Il mio amico della cooperativa appare sollevato: “Apprezzo la posizione del prete di Cl. In quel periodo, molti cattolici si erano gettati sul caso come farisei, con le loro verità, come avvoltoi senza Verità”.