Il beato don Serafino Morazzone (1747-1822) è una figura di sacerdote e di parroco che merita di essere conosciuta. In verità i pochi lettori del Fermo e Lucia, la prima stesura del romanzo che Manzoni poi rimaneggiò ampiamente fino alla versione definitiva dei Promessi sposi, ne traccia il ritratto. Lo scrittore conobbe il parroco di Chiuso, paese poco distante dalla villa del Caleotto dove la famiglia Manzoni trascorreva lunghi periodi. Egli volle ambientare nella canonica di Chiuso il celebre incontro tra il cardinale Federigo e l’Innominato (nella prima stesura Conte del Sagrato) e scelse di ricordare il buon curato, a pochi mesi dalla sua morte, avvenuta nell’aprile 1822 e la venerazione popolare in occasione del suo funerale.
Manzoni si dedicò al racconto della conversione del Conte del Sagrato nel novembre 1822, quando la memoria di quei giorni doveva essere in lui ancora viva e trasporta la figura di don Serafino due secoli prima, nel 1628, delineandone il ritratto: “Il curato di Chiuso era un uomo che avrebbe lasciato di sé una memoria illustre, se la virtù sola bastasse a dare gloria fra gli uomini. Egli era pio in tutti i suoi pensieri, in tutte le sue parole, in tutte le sue opere; l’amore fervente di Dio e degli uomini era il suo sentimento abituale: la sua cura continua a fare il suo dovere e la sua idea del dovere era: tutto il bene possibile; credeva egli sempre adunque di rimanere indietro, ed era profondamente umile, senza sapere di esserlo; come l’illibatezza, la carità operosa, lo zelo, la sofferenza, erano virtù che egli possedeva in grado raro, ma che egli si studiava sempre di acquisire”.
Non è dato sapere il motivo preciso per cui la figura del curato di Chiuso scompaia nelle successive versioni del romanzo. Ma per rintracciarne la biografia subentrano fonti storiche e archivistiche raccolte subito dopo la sua morte, in vista della causa di beatificazione, introdotta ufficialmente nel 1856 e continuata fino al 1880. Arrestatasi a causa di periodi difficili della curia milanese nei suoi rapporti con il potere politico, essa fu ripresa nel 1947 ad opera del cardinale Schuster, grande ammiratore di don Serafino, che amava chiamare “novello curato d’Ars”. Compiuto il complesso cammino canonico, il parroco di Chiuso è stato ufficialmente proclamato beato nel 2011 e la sua memoria liturgica cade il 9 maggio, anniversario dell’ordinazione sacerdotale.
L’esistenza del beato si svolge tutta tra due poli: Milano, dalla nascita ai ventisei anni e Chiuso, il paese dove visse il suo ministero sacerdotale per 49 anni fino alla morte.
Nato nel cuore della vecchia Milano, in un quartiere allora abitato da famiglie numerose di piccoli bottegai e artigiani, conosce ben presto le ristrettezze di chi, impoverito, è costretto a numerosi traslochi per poter abitare una casa modesta e aprire una piccola attività stabile. Ad appena tredici anni Serafino chiede di poter essere ammesso agli studi per diventare sacerdote. L’anno seguente viene accolto nel Collegio Brera dei Gesuiti. La sua giornata si divide tra lo studio, l’aiuto nella bottega del padre e le attività parrocchiali. A causa della povertà della sua famiglia non può frequentare le scuole del seminario, ma riceve l’istruzione per diventare prete grazie a un’antica istituzione risalente alle scuole episcopali e regolata da san Carlo. Diventa parroco di Chiuso ancor prima di diventare sacerdote, poiché risulta il migliore tra i partecipanti al concorso indetto per prendere il posto vacante per il trasferimento del curato precedente. Viene dunque ordinato sacerdote nel 1773 e l’indomani parte per la sua missione. Il distacco da Milano è definitivo: per 49 anni don Serafino non lasciò mai il suo paese, tranne che per gli esercizi spirituali.
Poche case, campi lungo l’Adda, vigne, il lago e duecento anime a cui dedicare tutte le proprie energie.
Il programma di don Serafino è semplice: la cura della fede dei suoi parrocchiani, l’educazione dei ragazzi, l’attenzione operosa ai poveri e ai malati.
Il cardinale Tettamanzi ha messo in luce con chiarezza due aspetti della spiritualità del beato. Il primo è l’amore per Gesù presente nell’Eucaristia. Tutti i giorni, prima dell’alba, il parroco era in ginocchio davanti al Santissimo, immobile, assorto. Il secondo tratto è l’impegno per la pace nella sua comunità, cosa difficile sempre, ma in particolare in un ambiente piccolo, insidiato dalla maldicenza.
Nulla di speciale, in apparenza. Ma la fede di don Serafino contagia a poco a poco il suo popolo e cominciano ad avvenire i primi fatti che rivelano la singolare predilezione del Signore per questo suo umile servo: la sua benedizione guarisce i malati, la sua conoscenza delle anime avvicina e converte i peccatori, nella massima umiltà ha il dono della preveggenza, tanto da sapere chi gli succederà come parroco di Chiuso. La sua breve malattia, la sua santa morte riuniscono il paese e i dintorni nella preghiera e nella lode per quest’uomo così amico di Dio da aver speso tutta la vita ad adorarlo nel breve spazio assegnatogli. Vengono segnalati altri miracoli dovuti alla sua intercessione e aumenta la devozione popolare presso la sua tomba. L’eco del passaggio di don Serafino non si spegne e dopo tanto tempo trova la sua risonanza anche nell’atto ufficiale della Chiesa, che lo proclama beato.
La sua è una figura che fa pensare alla parola di Gesù: “I poveri li avrete sempre con voi, ma non sempre avete me”. Il beato Serafino è sempre stato con il suo Signore e con lui ha soccorso e consolato la povertà della sua gente.