Un quesito semplice-semplice: può un accordo tra le parti, quindi rappresentativo degli interessi della sola parte interessata, prevedere la cancellazione di una norma di legge, che, ovviamente, rappresenta gli interessi di tutti?
Non è la prima volta, nell’ultimo anno, che un simile accordo tra le parti (governo-sindacati) produce un risultato quantomeno anomalo nel mondo della scuola. Che i giuristi poi analizzeranno nel dettaglio della sostenibilità normativa.
Ma questo è il messaggio che è passato. Anche se, lo sappiamo, basta poi anche un piccolo emendamento, infilato da qualche parte (anche se il Quirinale, negli ultimi anni, sta prestando particolare attenzione alla congruità degli articolati di legge), per modificare la norma di legge contestata.
Ovvio, infine, che non può essere un rilievo giuridico, pur legittimo, ad inficiare una scelta, perché conta, nella politica come nella vita, la sostanza, che le norme sono chiamate poi a riconoscere e a validare.
Il vero snodo, però, è a monte. Il riconoscimento, o meno, di un’etica della responsabilità personale. Ai nostri giorni, la responsabilità personale è rimessa in discussione per diverse ragioni: perché, alla fin fine, conta la struttura e non le persone, perché le stesse persone altro non sono che prodotti sociali, perché, per le scienze che analizzano la cornice della nostra identità, nulla accade senza una o più cause, per cui l’esistenza è frutto deterministico del comportamento. L’uomo, dunque, non è libero, non è capace di pensiero autonomo, non è capace di responsabilità, è sempre in balia di forze naturali o (per chi crede) di forza soprannaturali.
Queste negazioni non riconoscono un aspetto essenziale del problema che vorrebbero risolvere: il principio di responsabilità è comunque una mediazione, funzionale ad una relazione, ad ogni relazione. E le relazioni si costruiscono, sono cioè frutto delle diverse variabili delle nostre personalità e dei relativi contesti.
Se noi, nella vita di tutti i giorni, di fronte all’evidenza di un fatto negativo, cerchiamo comunque — e giustamente — un responsabile, tanto che, se non lo troviamo, ci inventiamo dei “capri espiatori”, perché disconoscere questo principio, che la “chiamata diretta”, accanto ad altre responsabilità presenti nella scuola, comportava? In base a quale principio? Solo perché alcuni presidi-sceriffo si sarebbero comportati male? Invece di rendere trasparente la procedura, e colpire i colpevoli, si nega ciò che tutto il mondo del lavoro ritiene ovvio: chi ha la responsabilità, pur con tutte le garanzie, è giusto che decida. E se sbaglia, è giusto che paghi. Cioè la certezza del diritto.
Il principio di responsabilità, dunque, non ha bisogno di essere riconosciuto in termini generali, cioè di principio, ma richiede e pretende di essere accolto integralmente. Per cui, stabilite alcune regole, con diritti e doveri, riconosciuti i reciproci rapporti di responsabilità, poi le conseguenze devono e dovranno essere lineari, ovvie, senza lasciare margini a logiche assistenzialistiche (cioè deresponsabilizzanti) o di parte.
Forse che sia questo il vero “cambiamento” che serve, cioè l’affermazione dello “stato di diritto”?