Termina la lunga estate degli insegnanti, che se non dura tre mesi poco ci manca: almeno un mese e mezzo pieno, metà luglio e tutto agosto. Chi non ha fatto esami è praticamente in vacanza dal 15 giugno, e a settembre si carburerà molto lentamente. Tanto tempo libero, dunque, non è un luogo comune. Usato come? A tremare per l’incognita del trasferimento chissà dove, e a lamentarsene mille volte, o a postare che non è vera la diceria dei tre mesi di vacanze, salvo pubblicare per tre mesi foto da Grecia, Puglia e cenette. E poi?
Poi sussiste il problema dimenticato di cosa sia la scuola, e di cosa stia diventando. Insegnare implica il rapporto quotidiano principalmente con le proprie materie e con i ragazzi: tutto il resto è noia. Eppure queste due cose, a quanto pare, non contano più nulla. Nel curriculum richiesto ai neoassunti non trovano spazio (a meno che qualcuno non voglia aggiungerle alla voce “altro” tra le note di colore). In giro non se ne parla, i giornali lo ignorano, e rarissimamente ne parlano gli insegnanti. In questi mesi estivi, che rapporto abbiamo avuto con le nostre materie e con i ragazzi? Perché la scuola è fatta di queste due cose, da cui chi è insegnante non sa andare in vacanza. Il nocciolo della questione, evidentemente, è se uno ci è o ci fa: perché se uno fa l’insegnante è un conto, ma se uno lo è… Quanto tempo abbiamo trascorso quest’estate con i ragazzi? quanto ne abbiamo sentito il bisogno? quanto ci ha corretto la loro vita? La vita concreta di qualche ragazzo concreto: non la vita generica dei ragazzi di oggi. Non è possibile insegnare senza partire dalla vita dei ragazzi, non si insegna niente a chi non si conosce. Ma quanti danni farà chi non ne ha visti per tre mesi?
Non solo. Appena un amico torna da un viaggio estivo, gli piove addosso una marea di sguardi interrogativi: “Raccontaci, dove sei stato? com’è Barcellona? e il Salento?”. E tutti si aspettano grandi racconti. Se il turista descrive posti meravigliosi, difficilmente gli altri schiodano gli occhi da lui. Da uno che viaggia mi aspetto che mi racconti com’è fatto il mondo, che mi spalanchi la curiosità di mettermi in viaggio. È il mio ideale di insegnante di geografia (o, come si chiama adesso, geostoria): vorrei che mi raccontasse il mondo, quello che ha visto coi suoi occhi. Non c’è confronto con quello fermo lì sulle carte geografiche: bisogna viaggiare. Eppure, in fondo, anche un turista che ne sa? Chi va per esempio cinque giorni a Barcellona cosa ha da dirci? Chi ci vive, lui sì può parlarcene davvero. Sono in tanti a fare un viaggio a Barcellona e a tornarsene col souvenir del toro e il flamenco nella testa, che è un po’ come se un catalano villeggiasse in Trentino e si portasse il souvenir di un pizzaiolo e il Rinascimento nella testa.
Analogamente, dopo tre mesi da un insegnante di letteratura mi aspetto che mi racconti il mondo della letteratura. Uno che arrivi a settembre abbronzato di poesie, uno che si è tuffato nei libri e nel mare. Uno che si è aggrinzito le mani stando quattro ore in acqua con i suoi figli, non uno che si alzava da sotto l’ombrellone soltanto per gridare di uscire a chi aveva le mani aggrinzite. Che inverno plumbeo aspetta gli studenti che si sbatteranno contro chi parla di mari e di libri in cui non ha mai rischiato di annegare, e che li inonderà di chiacchiere talmente inutili da rendere la scuola lontana dal fascino della letteratura almeno quanto lo è la scritta dietro un materassino “tenere lontano dalla portata dei bambini” da un bambino che instancabilmente salta su e giù da un materassino.
C’erano (quasi) tre mesi di tempo e un bonus di 500 euro: quanti hanno sentito l’ardore di usarli per leggere Leopardi o Verga o Montale? Ritroveremo nelle aule gente che continua a sapere di Ungaretti meno di quanto un catalano sa dell’Italia, e altri che avranno anche leggiucchiato, ma pur sempre da turisti. Se uno leggesse, poniamo, I miserabili di Victor Hugo, che ne saprebbe? Dovrebbe cimentarsi con qualche altro libro dell’autore, e rileggere I miserabili, e provare a entrare, un passo dopo l’altro, nel suo mondo. Invece vediamo un musical e pensiamo di conoscere Hugo. Poco importa, in effetti: se è un turista, va benissimo; almeno ha iniziato, e chissà che non si fermi qui. Di libro in libro, di spiaggia in spiaggia, di parola in cosa, forse arriverà lontano. Ma se un turista pretendesse dopo due settimane di salire in cattedra a insegnare cos’è la Puglia? Meglio imparare la geografia da un camionista, e la letteratura da un lettore comune.
Ricominciamo da qui: dalle cose belle. Che bellezza porteremo in classe? Quali scoperte ci hanno travolto? Che passo in più abbiamo fatto rispetto alla nostra materia e ai ragazzi? Butteremo finalmente i paragrafetti e le domandine dallo stesso scoglio dei commenti sugli hotel e dei depliant turistici? (Quasi) nessuno sbufferà davanti a chi racconta di spiagge caraibiche nel tarantino e della cattedrale di Trani, di un riso patate e cozze e di un tuffo dal ponte di Ciolo, di una novella di Pirandello o di una poesia di Eliot. Se questo non arriverà, rimarrà “ognuno in fondo perso dentro i fatti suoi”.
C’era un corso di aggiornamento gratuito, quest’estate: le Olimpiadi. Semplicemente vedendo le Olimpiadi, senza sorbirsi nemmeno un’introduzione storica sul nuoto o sull’atletica, i nostri figli si appassionano. A quel punto cercano magari di conoscere anche la storia e le regole di uno sport. Non è un solare suggerimento di metodo per insegnare le nostre materie? Ma i ragazzi troveranno, sulla faccia degli insegnanti che rientrano, la potenza di Bolt o le lacrime di Abbey D’Agostino e Nikki Hamblin che si abbracciano alla fine dei loro faticosissimi cinque chilometri? In qualche insegnante riconosceranno mani aggrinzite dal troppo mare come le loro?