BONN — Anche in Germania è uscito il libro-conversazione (questo termine proposta da padre Federico Lombardi alla presentazione del libro a Roma mi sembra davvero più adeguato che “libro intervista”) di Andrea Tornielli con Papa Francesco, Il nome di Dio è misericordia. Nell’inserto “Christ und Welt” del rinomato settimanale Die Zeit (per anni ne è stato redattore l’ex cancelliere tedesco appena morto Helmut Schmidt), per ben due settimane di seguito il libro è stato recepito e discusso. La prima volta con una scelta di frasi del papa (su confessione, omosessuali, chiesa e mondo, corruzione) ed una lunga intervista al giornalista italiano; la seconda volta con un “pro e contra” di due redattori del giornale: Laura Diaz, entusiasta del libro, e Raoul Löbbert, fortemente negativo.
Nell’intervista a Tornielli c’è un passaggio che mi ha fatto riflettere a lungo. L’intervistatore domanda: “Una regola giornalistica recita di non identificarsi con l’oggetto del lavoro di cui si sta scrivendo. Nel sua redazione del libro si è posta la domanda della sua distanza professionale da Francesco?”. La risposta di Tornielli è molto chiara: “No, non mi sono posto questa domanda. Era importante per me lavorare sull’esattezza delle domande. Per me era importante che il cuore del suo messaggio fosse presentato in modo chiaro. Non ho mai nascosto di fronte a nessuno di essere un cattolico credente. Ma il problema della giusta distanza non me la sono posto”. L’intervistatore insiste: “Ma è cosciente della sua grande vicinanza a papa Francesco?”. “Sì, ovviamente — risponde Tornielli —, non posso assolutamente negarlo”.
Questo scambio di battute alla fine dell’intervista pone il problema della conoscenza e dell’etica giornalistica. L’intervistatore tedesco vede la necessità di una distanza professionale, mentre il giornalista italiano si pone il problema di una comprensione per così dire “intima” dell’oggetto che vuole presentare. Ovviamente per sapere se ciò che si trova direttamente di fronte ai miei occhi sia un bicchiere o un altro oggetto devo allontanarlo da me. La domanda è se questa distanza professionale debba essere intesa nel senso di un neutrale atteggiamento nei confronti dell’oggetto stesso che si tiene in mano. Ora, se il bicchiere contenesse un Whisky di ottima qualità, prendiamo per esempio un Cragganmore, la neutralità di fronte all’oggetto non farebbe crescere per nulla la qualità del mio sapere.
Se poi con il cosiddetto criterio della “distanza professionale”, che la redazione del giornale vede come una “regola giornalistica”, volessimo giudicare il dialogo pro/contra, allora direi che in esso non vi è neppure lontanamente la dimensione della distanza richiesta.
Laura Diaz parla in modo positivo del papa, ma ne parla in forza del suo essere donna: “il libro mi tocca. Mi sento accolta in esso”. Il libro corrisponde a ciò che sentono “omosessuali così come prostitute, cattolici tiepidi così come quelli ardenti”. Parla della soluzione del Papa a tutti i problemi: andare a confessarsi, ma poi si chiede se nella sua parrocchia sarà possibile incontrare una persona che ti confessa nello spirito di Francesco. E poi: “è un libro per sentirsi bene, con storie come si potrebbero leggere in Brigitte” (un giornale tedesco di moda e bellezza, dieta e ricette, ndr). Questa, più che distanza professionale, mi sembra una identificazione con ciò che si sente come “vicino” e in cui l’oggetto della ricerca viene dichiarato un “Frauenheld”, un eroe femminile.
Passiamo a Raoul Löbbert. “Il papa divinizza il femminile e disprezza ciò che è maschile — non c’è da meravigliarsi se gli uomini in Vaticano storcono il naso su di lui e sulla mamma-chiesa”. Non può comprendere questo libro fatto per donne e per sudamericani: “Non sono sudamericano”. Infatti è tedesco, ma anche assolutamente incapace di distanziarsi dal suo essere un uomo tedesco. Poi ridicolizza i gesti del papa, come se questi passasse il tempo, senza alcun discernimento, a stropicciare i capelli dei ragazzini. Quando invece il Santo Padre tocca le persone lo fa sempre con gesti misurati, penso per esempio ad una visita in un ospizio per anziani alla periferia di Roma cui era dedicato un servizio di TV 2000, in cui Francesco teneva semplicemente la mano di persone anziane come lui che ne avevano bisogno.
Nel corso di questo articolo “professionale” si legge infine un giudizio a proposito del quale mi sono chiesto, quando l’ho letto, se riguardasse la stessa persona: “Credo con la ragione e comprendo con la fede”, dice Löbbert, mentre gli ideali del papa sono le nonne argentine e un certo sentimentalismo incapace di ogni forma di discernimento politico ed ecclesiale. Riassunto: “Sono un individuo pensante”, conclude il giornalista. Questa “distanza” professionale mi sembra piuttosto una non identificazione con chi non si sente vicino ed una identificazione acritica con ciò che si sente “vicino”: l’individualismo della classe media occidentale. Detto in altri termini: una rinuncia a capire.
Vorrei ora riflettere su alcuna delle frasi che l’inserto religioso di questo giornale liberale ha scelto dal libro di Tornielli e che ha pubblicato sopra l’intervista del giornalista italiano. “In primo luogo mi sembra giusto parlare di uomini omosessuali; perché dapprima mi trovo di fronte all’uomo nella sua completezza e dignità. L’uomo non viene definito dalla sua sessualità. Non dimentichiamo che siamo tutti creature amate da Dio” (chiedo scusa se la frase non corrisponde al cento per cento all’originale italiano, è stata da me ritradotta dal tedesco, nda).
Certo non è un “discernimento originale” mai praticato, ma un reale discernimento che mi permette per esempio di incontrare quotidianamente un omosessuale nel mio ambito di attività con serenità e in spirito di accoglienza. O un’altra frase: “La Chiesa non è nel mondo per condannare, ma per rendere possibile l’incontro con questo amore originario, che è la misericordia di Dio”. Questa frase ricorda tutta, a livello ecclesiologico, ciò che il Logosdi Dio dice a livello cristologico nel Vangelo di san Giovanni al capitolo tre in dialogo con Nicodemo: “Perché Dio non ha mandato il suo Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo venga salvato attraverso di esso” (17).
Questa è in fondo la morale della favola. La gnosi giornalistica, che pensa, almeno nella sua versione maschile, di agire in forza di una distanza professionale, è meno capace di quella “conoscenza amorosa” propria dell’evangelista Giovanni nel vivere una reale e giusta distanza anche nei confronti di Pietro. Nel grande schizzo di teologia della Chiesa che c’è in Giovanni capitolo 21, Gesù stesso, nei confronti di un Pietro curioso del destino del “discepolo che egli amava”, ha parole di grande correzione: “Se voglio che egli rimanga finché io venga, che ti importa? Tu, seguimi”. Bene, questo è il criterio per giudicare il Santo Padre in modo corrispondente all’oggetto, come adesione ad esso e come distanza da esso: segue egli Cristo, il Logos di Dio? — il Logosdell’Amore Gratis, che chiamiamo “misericordia”? I “piccoli” in questo mondo non hanno nessun dubbio.