Pochi secondi e tutto il tuo mondo viene distrutto. Alcune, relativamente brevi, scosse e la tua casa, dove hai trascorso una vita intera, crolla come un castello di carte con una folata di vento. Vestiti, foto, regali, ricordi… tutto perduto. Bastano alcuni terribili istanti per portarti via gli affetti a te più cari.
Questo è la conseguenza di quel fenomeno fisico che gli scienziati definiscono come “scosse telluriche” e che noi meglio conosciamo come terremoto. Davanti a questa immensa ingiustizia ha forse ragione Leopardi nel sottolineare, nel suo Dialogo della Natura e di un Islandese, che in fondo la natura non abbia alcun interesse nei confronti delle vite dei singoli uomini: “Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte”.
Tutto ciò che ci circonda sembra essere dominato da una casualità ultima, una forza cieca che ci sovrasta e che noi dobbiamo subire. Di fronte ad essa non abbiamo strumenti, possiamo porre solo degli ironici e insufficienti rimedi.
Machiavelli, nel suo celebre Il principe, nel capitolo XXV, affronta questo tema descrivendo questa forza imprevedibile e superiore all’uomo che chiama fortuna. Anche per lui tutta la realtà è permeata da un elemento che è assolutamente estraneo e indifferente a ciascuno di noi: “Nondimanco, perché il nostro libero arbitrio non sia spento, giudico potere esser vero, che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre”.
La fortuna però riguarda solo “metà delle azioni nostre”, cosa influenza e condiziona “l’altra metà, o poco meno” del nostro agire? È lo stesso Machiavelli a rispondere: “Ma che ancora ella ne lasci governare l’altra metà, o poco meno, a noi”. Per lo scrittore toscano è la virtù quello che ci permette di poter attenuare, almeno in parte, le azioni incalcolabili che la natura (o fortuna) fa accadere nelle nostre giornate. “Ed assomiglio quella ad uno di questi fiumi rovinosi, che quando si adirano, allagano e’ piani, rovinano li arbori e li edifizi, lievano da questa parte terreno, ponendolo a quell’altra; ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno fugge all’impeto loro sanza potervi in alcuna parte ostare. E, benché sieno così fatti, non resta però che gli uomini, quando sono tempi queti, non vi potessino fare provedimento e con ripari e con argini: in modo che, crescendo poi, o eglino andrebbono per uno canale o l’impeto loro non sarebbe né sì dannoso né sì licenzioso.
L’uomo quindi con la sua azione può rispondere (o cercare di prevenire) alla forza disarmante della natura e ricostruire là dove essa ha distrutto. Esempi di questa capacità di ripartenza ogni volta ci vengono testimoniati da quelle persone che, colpite da qualche calamità trovano le forze per ripartire, si rimboccano le maniche mettendosi all’opera. Lo dimostra Alvar Gonalez-Palacios descrivendo la reazione dei giovani fiorentini all’inondazione avvenuta più di 20 anni fa: “La natura sa distruggere infinite cose ma tutte possono essere riparate dagli uomini”.
Ma se l’autore di una così grande distruzione non fosse solo la natura? Anche l’uomo infatti è in grado, in pochi secondi, di radere al suolo una intera città e con essa i suoi vestiti, regali, ricordi e affetti. Lo descrive Giorgio Bottai raccontando della distruzione di Montecassino durante il secondo conflitto mondiale: “Montecassino […] ha subito invasioni e assedi, incendi e crolli per terremoti. Più volte è stato distrutto. L’ultima volta nel 1944 quando gli alleati – che lì nella battaglia contro i tedeschi hanno perso migliaia di soldati – sotto pressione dell’opinione pubblica anglo-americana decidono di raderlo al suolo. Convocano a pochi chilometri di distanza tutti i corrispondenti di guerra e, praticamente in diretta, danno il via al bombardamento a tappeto che riduce in macerie il monastero”.
Qualunque sia la causa della distruzione, sia essa “naturale” o “umana”, la domanda che emerge è da che cosa si può ripartire per ricostruire la dove tutto è distrutto. “Succisa Virescit” (tagliata ricresce), questo la frase che appare sullo stemma del monastero di Montecassino, motto che può riassumere la forza di volontà che spinse gli abitanti di queste terre in provincia di Frosinone a ricostruire là dove erano rimaste solo macerie e desolazione.
Ma da dove nasce questa forza d’animo che permette di non abbandonare tutto? Cosa fa decidere di ripartire e rimettersi in gioco anche se tutto quello che ti circonda è solo distruzione e tristezza? Guardare all’esperienza di coloro che hanno vissuto queste circostanze può darci una chiave di risposta, come sottolinea ancora Alvaro Gonzalez nel suo articolo per Il Sole 24 Ore: “Quel che Firenze insegnò a tutti allora, cinquanta anni fa, è il senso della dignità e come nulla sia veramente perso se si ha la forza e la fede di non lamentarsi e di rimettersi a lavorare da capo”.
Il “senso della dignità”, la “forza della fede di non lamentarsi”, possono essere alcuni degli strumenti in grado di darci la spinta per ricominciare, ma essi da dove nascono? L’uomo infatti è anche “In grado di annientare per sempre ciò che altri uomini hanno fatto prima di quelli che ignorano la propria missione”? Cosa permette allora al costruire di vincere sul distruggere? La sola forza di volontà o una certa coerenza morale non sembrano essere sufficienti.
Quello che permette di ripartire e, di conseguenza, di ricostruire è aver sperimentato almeno una volta nella vita una “speranza più grande del dolore e che è in grado di vincere la morte”. Come ha ricordato papa Francesco ai terremotati di Carpi, dobbiamo decidere da che parte stare: “C’è chi si lascia chiudere nella tristezza e chi si apre alla speranza”.
Stefano Castiglioni, studente di storia nell’Università Statale di Milano