La nostra visita, come delegazione di scrittori italiani, ad un importante monastero russo ortodosso ci fa cogliere le differenze tra questo e i monasteri cattolici. Certo, in entrambe le tradizioni il monastero possiede un territorio. Ma in occidente la chiesa è l’edificio principale, centrale e spazioso, ed è contornata da altri edifici di uso diverso (alloggio dei monaci, foresteria, biblioteca…). In Russia un monastero è in realtà un villaggio di monasteri, di chiese diversamente dedicate, di dimensioni mai esagerate, con una struttura architettonica esterna abbastanza compatta, stabilitasi soprattutto tra il Sette e l’Ottocento, sobria e colorata di un’unica vivace tonalità: rosso, verde, azzurro, giallo, persino lilla.
Un Cremlino, ad esempio, è in parte anche un monastero (ma non solo): in quello di Mosca si trova la Chiesa dei Dodici Apostoli, sede “domestica”, come si dice, del Patriarca di tutte le Russie con i due grandi archi che consentono il passaggio dal suo cortile alla piazza delle cattedrali. Il Cremlino è infatti un luogo di “cattedrali”, cinque o sei, plurale. Poi è anche fortezza, certo, e centro politico e militare, residenza di zar e presidenti, ancora oggi.
Ma il più importante monastero russo che visitiamo è Optìna-Pustyn’, nel territorio della cittadina di Kozel’sk, duecentocinquanta chilometri a sud di Mosca. Ci arriviamo nel piovoso venerdì 21 settembre, importante ricorrenza mariana ortodossa, per cui nel territorio del monastero, immerso nel verde al limitare di una foresta, c’è gran movimento di persone. Tanti i pullman, provenienti da mezza Russia, Mosca compresa. Moltissimi i giovani, normalissimi, con i cellulari, i piercing e i tatuaggi, eppure compitissimi nel farsi il segno della croce tipico, con le tre dita della mano, prima di varcare il portone d’ingresso del territorio o il portale di ognuna delle sue chiese. La società russa è in parte, come quella occidentale, secolarizzata, ma molti stanno riscoprendo le proprie radici e persino la secolarizzazione “fa bene ai cristiani”, come dice Tat’jana Kasatkina, perché “Cristo non salva tutti ma ognuno” e ognuno deve riscoprire personalmente quel rapporto personale e incondizionato. Qui lo si capisce bene.
Nei monasteri ortodossi vigono regole sempre rispettate: alle donne, ad esempio, vengono fornite all’entrata (se non l’hanno già) di un fazzoletto per il capo e di un’ampia gonna per coprire anche le gambe già coperte dai pantaloni. Il colore delle cupole a cipolla tipiche di questa architettura rivela a cosa è dedicata la singola chiesa: l’azzurro indica Maria, l’oro il Signore.
A Optina-Pustyn’ una delle chiese è dedicata alla Madonna di Vladimir, l’icona più celebre e riprodotta, nota come Madonna della Tenerezza (quella in cui Maria e Gesù si toccano l’un l’altra le guance), protettrice della Russia; un’altra è dedicata alla Madonna di Kazan’, la cui icona originaria, dipinta a Costantinopoli, dopo numerose peripezie era finita a Fatima e fu restituita nel 1993 da Giovanni Paolo II al Patriarca con una solenne cerimonia.
Tra una chiesa e l’altra ci sono vie, giardini, piazzette, anche il cimitero dei monaci, con le tipiche croci a sette punte, in legno o ferro battuto. Il clima è di un calmo e intenso raccoglimento, resistente persino al negozio di souvenir o al bar, ma non troppo pesante. Sembra tutto molto semplice. Davanti a una delle chiese un numeroso gruppo di soldati prega e ascolta il racconto di una monaca. Altri monaci, solenni nelle loro tonache nere e, anche se giovani, con le lunghe barbe, passano in continuazione e la gente li saluta, li ferma e loro ascoltano, rispondono e benedicono.
Optina-Pustyn’ è anche importante per la memoria letteraria. Nel vicino monastero femminile di Šamordino, dov’era suora la sorella, veniva Lev Tolstoj, nell’ultima fase della sua vita, quando rifiutò le istituzioni e i rituali della chiesa in nome di un cristianesimo etico, non violento, teso al servizio dei poveri, secondo la sua pedagogia che aveva al centro gli amati contadini della sua terra, venendo talvolta vestito da contadino lui stesso, dopo aver percorso a piedi i 170 km che lo distanziavano dalla sua tenuta.
Šamordino ha una chiesa centrale rossa con i muri interni bianchissimi, sui quali spiccano numerose icone. Di fronte ad esse Eliana Di Caro, giornalista culturale della Domenica del Sole 24 Ore, sussurra: “Questo luogo, con le sue icone, è universale, non ha alcun bisogno di spiegazioni per essere compreso”. Le visite a Optina hanno influito sulla scrittura di Gogol’ ed i colloqui coi monaci l’hanno portato al tardo pentimento e al tentativo di distruzione della sua opera; qui Leontev si fece monaco; soprattutto qui veniva Fedor Dostoevskij, assieme a Vladimir Solovev, a far visita allo starets Amvrosij, di cui esiste un’icona e che ispirò lo starets Zosima dei Fratelli Karamazov.
Dostoevskij ricevette a Optina consigli fondamentali per la sua vita e missione di scrittore, tanto da confessare ai suoi lettori: “Sareste sorpresi se vi assicuro che proprio dalle preghiere di questi umili cercatori di solitudine e di silenzio verrà la salvezza della Russia”. Questo è il luogo dove Dostoevskij ha ideato la sua frase più nota, tanto che Luca Doninelli mi dice: “Qui ho capito per la prima volta il significato pratico dell’espressione la bellezza salverà il mondo“.
Perché l’interno di queste chiese possiede una bellezza da mozzare il fiato: nella loro penombra, l’oro delle icone e delle decorazioni è discreto e totale al tempo stesso, le luci di centinaia di candele alte e sottili guidano l’intensa preghiera di centinaia di persone, che sostano a lungo, ritte, davanti alle sacre immagini, le baciano e proseguono da una all’altra il loro pellegrinaggio interiore. Candelabri grandi e piccoli pendono ovunque. Bruno Osimo, scrittore e traduttore del nostro gruppo, laico di cultura ebraica, mi fa notare come uno di questi candelabri penda troppo vicino e di fronte all’icona della Madonna di Vladimir, tanto da occluderne quasi la vista. Mi sembra un’osservazione tenera e attenta.
È difficile non rimanere segnati da una visita simile. Il senso del sacro, il silenzio esatto di una folla che prega sembrano invitare a tendere il braccio per toccare, in quel silenzio, Dio stesso. Che forse davvero ci ha toccato.
(2 − continua)