Se tutte le volte che è stata annunciata la scoperta di un “anello mancante” si fosse trattato di un effettivo ritrovamento di reperti fossili rispondenti a quelle precise prerogative, allora la storia evolutiva dei viventi non avrebbe più lacune. Per anello mancante si intende infatti la presenza di una specie vivente che si colloca con continuità nella catena (ecco perché “anello”) evolutiva che si sarebbe sviluppata in modo graduale, secondo il modello darwiniano, oggi peraltro sottoposto a forti critiche proprio su questo punto della gradualità. Nel caso del genere umano, l’anello tanto ricercato è quello tra i primati non umani e gli esemplari classificati come Homo Habilis, cioè i nostri più antichi progenitori le cui tracce, risalenti a circa 2,5 milioni di anni fa, sono state identificate per la prima volta nel 1964 in Tanzania.
Anche questa volta sembra ripetersi una storia di preannunci e successivi dubbi. Nei giorni scorsi è rimbalzata con grande enfasi dalle colonne del Daily Mail di Londra la notizia del ritrovamento di uno scheletro di ominide nella zona di Sterkfontein in Sudafrica: la scoperta, opera del team del professor Lee Berger dell’Università sudafricana di Witwatersrand, consiste nello scheletro di un bambino ominide quasi completo e ben conservato, che potrebbe essere collocato evolutivamente tra l’australopiteco (3,9 milioni di anni fa circa) e l’homo habilis. Le informazioni più dettagliate fornite successivamente al preannuncio, invitano però ad una maggior prudenza e a riconsiderare la scoperta in un quadro più ampio. Ne abbiamo parlato con uno dei più autorevoli paleoantropologi italiani e internazionali, Fiorenzo Facchini, già ordinario di Antropologia all’Università di Bologna.
Quella dove Berger ha trovato lo scheletro di ominide era una zona dalla quale ci si aspettavano ritrovamenti così importanti o è stata una assoluta sorpresa?
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Il luogo del ritrovamento è a una quindicina di chilometri dal sito di Sterkfontein che ha fornito vari reperti di ominidi, tra cui la famosa australopitecina denominata Plesianthropus transwalensis, o Mrs. Ples. È quindi un’area fertile per la paleoantropologia. Nella grotta di Malacapa da dove provengono i nuovi reperti, nel 2008 Lee Berger aveva già fatto un primo rinvenimento di resti scheletrici della stessa epoca.
Come è stato possibile ritrovare uno scheletro intero e qual è il vantaggio conoscitivo di tale ritrovamento?
Lo scheletro non è intero anche se ben rappresentato nelle sue parti. Era scivolato nella grotta da qualche fessura superiore. Ci sono anche resti di altri due individui. Certamente le molte informazioni che riguardano lo stesso individuo sono molto interessanti.
Quali sono gli elementi che depongono a favore della identificazione di questo come ominide più antico di Homo Habilis?
Non pare più antico di Homo habilis. È stata calcolata un’età di circa due milioni di anni, forse un po’ meno. Viene considerato una forma australopitecina denominata Australopithecus Sediba, dal nome locale che significa “wellspring”, cioè fonte. In realtà prevalgono i caratteri australopitecini, tuttavia alcuni tratti lo avvicinerebbero al genere Homo. Dobbiamo però tenere presente che si tratta di un adolescente (avrebbe un’età di 11-12 anni) e quindi le caratteristiche dell’adulto non sono ancora ben definite. Mi sembra però che esse non siano sufficienti per attribuirle al genere Homo, che è stato segnalato per vari reperti nel territorio africano nelle regioni orientali, più a nord (Kenya, Tanzania, Malawi) e anche a Sterkfontein.
Quali invece gli elementi che sollevano dubbi?
L’età infantile potrebbe indurre in errore sul riconoscimento di caratteristiche della specie. In ogni caso la capacità cranica (420 cc) è decisamente di Australopiteco. Mi pare anche che non siano stati segnalati elementi culturali.
La retrodatazione dei nostri primi antenati era nell’aria e ci si devono attendere altre scoperte in questa direzione?
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Non mi pare si possa parlare di retrodatazione, perché il genere Homo era già presente e sembra anche in epoche più antiche in altre regioni. Ritengo però che qualche sorpresa possa sempre esserci nel campo della paleoantropologia. Sono piccoli tasselli che vanno a riempire i vuoti che sono ancora tanti.
In questi ultimi anni il quadro della paleoantropologia non si è troppo complicato, al punto da renderci sempre più difficile stabilire dove e quando e come è emerso il primo esponente della specie umana?
Quello della fase preumana del processo di ominizzazione è un quadro complesso. Sembra di trovarsi di fronte a una rete di linee variamente intrecciate fra loro. Sono stati proposti vari antenati del genere Homo: Australopiteco afarense, Kenyantropo, Ardipiteco, Australopiteco africano; ma bisogna dire che l’identificazione del genere Homo non comporta necessariamente l’individuazione dell’uomo nel senso che comunemente si intende. Nelle fasi più antiche dell’umanità occorrono informazioni sul comportamento dell’ominide, cioè sulla capacità di sviluppare cultura.
(a cura di Mario Gargantini e Daniele Banfi)