Il 27 novembre dell’anno in cui T.S. Eliot diede alle stampe The Waste Land concluse la sua esistenza terrena Alice Meynell (1847-1922), poetessa inglese di grande prestigio artistico, ma di non adeguata risonanza editoriale in Italia — se si eccettuano pochi e sparsi frammenti di traduzioni a cura di Ettore Cozzani (1933), don Alberto Castelli (1948), Francesco Gargaro (1968), Maria Luisa Bonaguidi Paradisi (1989), nonché di don Giuseppe de Luca che la definì “la grande e difficile poetessa inglese” in uno scritto del 1954.
Il suo amore per la realtà ne fa un’incarnazione preziosa ed inimitabile di quel complete [Christian] realist del quale scrisse — distinguendolo dal true realist — con cristallina intelligenza in un breve articolo sul romanzo americano contemporaneo, pubblicato nel 1886 sul periodico cattolico inglese The Tablet: per Meynell, mentre il true realist “è realista nel suo studio non delle cose spregevoli della vita, ma di quelle gentili e amabili, intricate ed intime, inquiete e dubbiose”, il complete realist “abbraccerà la totalità della vita secondo i metodi dell’esperienza cumulativa dell’uomo, [incluse] le cose nobili e quelle terribili”.
Tale profonda radice teologica, antropologica e culturale, il cui debito nei confronti dell’esperienza di John Henry Newman pare indiscutibile, ispirò la sua esistenza e la sua opera, nonché ovviamente l’approdo alla Chiesa cattolica nel 1868 che Meynell motivò con un realismo radicale e concretissimo in una lettera del 1917 alla figlia Olivia, dai toni forse indigesti per il diffuso emozionalismo dei nostri giorni: “vidi, quando ero molto giovane, che una guida morale era persino più necessaria di una guida nella fede. Per questa ragione entrai nella Chiesa [cattolica]. È ovvio che ci sono altre società cristiane che possono legiferare, ma la Chiesa [cattolica] applica le sue leggi e, di conseguenza, è di fatto indispensabile”.
Nell’approccio di Alice Meynell alla letteratura, altrettanto cristianamente realisti furono sia il suo rifiuto del carattere “melanconico” e “autoreferenziale” di cui trovava traccia nell’opera di molte colleghe poetesse, sia l’assunzione — in comune accordo con il marito Wilfrid Meynell, sposato nel 1877 — di un instancabile impegno nella creazione di una tradizione letteraria cattolica al passo con i tempi.
Opera di un complete [Christian] realist è, senza dubbio, la poesia Christmas Night, qui proposta in traduzione inedita con il titolo di Notte di Natale e pubblicata nel 1923 nella raccolta postuma Last Poems — lo stesso anno, sia detto per amor di contesto, in cui fu conferito il Premio Nobel per la Letteratura a W.B. Yeats ed in cui apparvero importanti raccolte poetiche di D.H. Lawrence, Robert Frost, Wallace Stevens, Katherine Mansfield (postuma).
1 Non Lo troviamo sulla difficile terra,
2 Nell’agitato genere umano,
3 Nella morte per la via, nella nascita per caso
4 Oppure nella “marcia della mente”.
5 La Natura, nidi e prede, nutriti e rapiti,
6 Lo nascondono così bene, così bene:
7 Il Suo incrollabile segreto sembra colà al nostro pensiero
8 Il miracolo più triste della vita.
9 V’è di Lui congettura nella felicità dell’uomo,
10 Sospetto nelle lacrime dell’uomo,
11 O sta appostato dietro il lungo, scoraggiato quesito,
12 Sempre più flebile con il passar degli anni.
13 Ma è assente, è assente ora? Ah, questo cos’è,
14 Vicino come in un letto di puerpera,
15 Deposto sui nostri cuori afflitti, alla distanza di un bacio?
16 Una testa di neonato senza casa.
Non va taciuto il dato che tale meditazione poetica sulla Notte di Natale è introdotta da un esergo assai emblematico, tratto da quel Thomas à Kempis (c. 1380-1471) che ispirò — tra gli altri — Alexander Pope (1688-1744) e C.S. Lewis (1898-1963). Fin dalla sua fulminante eco del Soliloquium animae del quattrocentesco canonico agostiniano, Meynell indica implicitamente con coraggio la realtà di un’unità nella fede proiettata al di là delle incancrenite fratture della Storia e simboleggiata dalla citazione di un testo che fu tradotto in inglese da cattolici e presbiteriani, anglicani della High Church e unitariani: “se non posso vederti presente, ti voglio pianger assente, perché anche questa è prova d’amore”.
Se la notte della Vigilia di Natale è “prova d’amore”, lo è perché, pur non potendo scorgere (see) la presenza di Colui che è atteso, gli occhi di chi non dorme e non si lascia vincere dal sonno, mantenendosi attenti e accorti, volgono volontariamente in pianto (I will mourn) il desiderio della Sua nascita, che resta — per ora — una luttosa assenza. È proprio in tale capacità (newmanianamente) economica di volgere il limite in risorsa che si manifesta compiutamente il metodo del complete [Christian] realist, cioè di colui che abbraccia “la totalità della vita secondo i metodi dell’esperienza cumulativa dell’uomo, [incluse] le cose nobili e quelle terribili”.
Sospinte dall’esempio di Thomas à Kempis, sono anche altre le “prove d’amore” che appaiono sulla scena della Notte di Natale di Alice Meynell, ispirate dalla prospettiva integrale del di lei coraggioso realismo cristiano e modernamente inaudite sulla soglia del terzo decennio del ventesimo secolo. Eccole, in estrema sintesi: nella prima quartina, il rinvenimento dell’assenza del Cristo Bambino sulla scena “particulare” e universale, individuale e comunitaria, delle vicende terrene e terrestri (vv. 1-4) — difficili (v. 1), agitate (v. 2), marginali (v. 3) e accidentali (v. 4) — inclusa la razionalistica utopia vittoriana della “marcia della mente” (v. 4); nella seconda quartina, la consapevolezza (v. 7) dell'”incrollabile segreto” del Cristo Bambino, celato (v. 6) tra le pieghe del “miracolo più triste della vita” (v. 8) che la Natura compie intrecciando l’amore che nutre e l’istinto che dilania (vv. 5-6); nella terza quartina, l’intuizione (vv. 9-11), quasi agostiniana, della verità del Cristo Bambino assente che si lascia intravedere tanto nella felicità dell’uomo (v. 9) quanto nel suo pianto (v. 10), oppure che “sta appostato” dietro l’inevitabile quesito dell’uomo sul significato della sua esistenza (vv. 11-12).
Tali “prove d’amore” sono davvero soltanto compensazione di un’assenza e di un’assenza ora distintamente percepita (v. 13)? In realtà, per il lettore, la vera “prova d’amore” al centro della Notte di Natale di Alice Meynell non emerge dall’esperienza di quel coraggioso realismo che interpreta già l’attesa del Cristo Bambino assente come presenza? Non è così per la puerpera che attende il nascituro (v. 14), per chi pregusta il bacio non ancora ricevuto (v. 15), per il neonato che si affaccia sul mondo senza la certezza di un luogo ospitale (v. 16)?