“Non uccidete il mare/ la libellula, il vento”. Pare quasi di sentirle, queste parole, riecheggiare per le strade delle nostre città, tutte asfalto e grattacieli. Un appello all’umanità, quello di Giorgio Caproni nella poesia Versicoli quasi ecologici, tanto che tutti i verbi si indirizzano ad un “voi” che prende dentro tutti, contemporanei e non, con la tipica forza evocativa di cui è capace la poesia, totalizzante, coinvolgente, che non lascia fuori niente. Un appello all’umanità fatto in ginocchio, con le mani giunte e la voce implorante, un appello perché la bellezza e la meraviglia della natura non vengano schiacciate dai “sempre più vasti paesi guasti” (dove la rima interna vasto-guasto molto ci dice sul pericolo incombente dei mostri di cemento), e perché l’uomo non perda quel legame sacro con l’ambiente che non ha costruito lui.
L’appello si accompagna però anche ai versi sentenziosi che tentano di spiegare la verità sull’amore e il suo innegabile rapporto con la natura, e si conclude con una triste visione: il sospiro malinconico e rassegnato di chi, sparita la “foresta e l’aria verde”, ipotizza un mondo migliore, liberato dall’azione distruttiva dell’uomo.
Potrebbe finire qui la riflessione sui contenuti di questo componimento. Per argomentare maggiormente si potrebbe forse ribadire l’importanza del rispetto dell’ambiente, la necessaria limitazione dell’inquinamento, la lotta per lo sviluppo delle zone verdi all’interno di grosse aree urbane, o la protezione di alcune specie particolari (magari proprio del lamantino e galagone). Eppure il titolo stesso della poesia, e ancor più quello della raccolta nella quale è inserito, svelano una visione profonda, sotto la patina della pubblicità progresso sulla salvaguardia dell’ambiente. “Versicoli quasi ecologici”, si intitola il componimento, e quel “quasi”, come ogni parola in poesia, non è sfuggito alla penna di Caproni per sbaglio. Ancora più eloquente però è il titolo Res amissa, una “perduta cosa” che fa da sfondo a tutte le poesie della raccolta. Di che cosa parla Giorgio Caproni? Che cosa ha perso di tanto importante da metterlo a titolo di una raccolta, e per di più in latino?
Forse allora ciò a cui si rifà il poeta è un qualcosa di più della mera rottura del rapporto tra uomo e natura, della perdita della bellezza naturale che ci circonda. E di cosa si parla invece quando si dice che senza erba e senza acqua non c’è amore? “L’amore/ finisce dove finisce l’erba/ e l’acqua muore”. Questo verso sentenzioso, che spezza a metà la poesia e si impone come verità universalmente accettabile, è solo una sorta di ritornello che potrebbe recitare una Pocahontas piangente per l’abbandono del suo uomo? O è strascico di un romanticismo agonizzante che ancora oggi non si decide a morire? Difficile dare una risposta certa senza leggere nella mente dell’autore.
E tuttavia l’improvviso virare della poesia dall'”appello ecologico” all’umanità della prima metà, alla tragica visione finale di un mondo naturale ormai “perduto”, non può lasciare indifferenti. Uccidere, soffocare, fulminare sono le azioni dell’uomo nei confronti della natura che lo circonda, azioni sospinte dal “profitto vile” di chi vuole a tutti i costi appropriarsi di qualcosa che c’è senza il nostro permesso, qualcosa che, di fatto, ci è donato. “Non fatelo cavaliere del lavoro” ci dice Caproni di costui; che equivale a dire: non fatene un idolo, non promuovetelo di grado, non aumentatene lo stipendio perché, di fatto, ciò che ha compiuto è stato recidere il legame più importante, l’unico, forse, ancora in grado di svelarci chi siamo, e perché esistiamo.
I verbi della seconda parte della poesia lo esprimono bene: il risultato per chi compie tali azioni contro la natura è che l’amore “finisce”, il verde “sparisce”, e ciò che resta è la triste convinzione che, in fondo, il mondo sarebbe migliore senza l’uomo. Sembra quasi la frase scritta da un bimbo pentito sul suo diario segreto, dopo aver fatto un dispiacere alla mamma: “Se non ci fossi, se non fossi mai nato, mia madre sarebbe più felice, avrebbe meno problemi, meno dispiaceri, e forse sarebbe più magra e bella”. Ma è davvero solo questo ciò che “Versicoli quasi ecologici” ci comunica? Sono parole semplici, quelle di Caproni, immediate, con poche figure retoriche, di una efficacia comunicativa impressionante.
Ed è proprio per questa trasparenza che non ci si può fermare alla superficie. La struttura cadenzata, paratattica, ricca di una musicalità garantita dalle assonanze e da alcune rime intelligenti, come “foresta-resta” o assonanze come “bella-terra” è tipica di una certa poesia contemporanea e in particolare quella di Caproni. Il retrogusto di questi versi però, nonostante la vividezza e la chiarezza delle immagini è quella di una estrema frammentazione, dovuta per lo più agli enjambement sapientemente posizionati. Proprio grazie a questi spiccano con particolare contrasto alcune parole chiave: “uomo, amore, finisce, sparendo, resta, sospira, bella…”. Il verso pare quindi scomposto, spezzato, imprevedibile, e le vere protagoniste rimangono le parole; e l’insistenza delle parole non mente.
Centrale in tutta la poesia è il rapporto stretto e innegabile tra l’uomo e ciò che lo circonda. È un rapporto però che va al di là del mero problema del rispetto della natura, della visione ambientalistico-ecologica. Quel “quasi” non lascia scampo. Ciò di cui parla Caproni è qualcosa che dice prima di tutto dell’essenza dell’uomo come rapporto; un rapporto insolubile con una natura che si tenta di controllare, cancellare, comandare, ma che non può prescindere da ciò che è: dato, e in quanto dato, dono. Che sia questa quindi la “perduta cosa” che tanto tormenta la raccolta di Caproni? Che sia la natura in quanto dono che l’uomo non deve dimenticare per non perdere se stesso? “L’amore finisce dove finisce l’erba e l’acqua muore” non è più quindi il lamento di una Pocahontas abbandonata, ma l’intuizione improvvisa e fulminante del nesso tra amore e natura, che sta proprio in quell’essere dono insperato, salvezza che ridona se stessi.
Maria Maffezzoli, studentessa di lettere moderne nell’Università Statale di Milano