Ci vuole una bella fantasia per immaginare di estrarre energia dalle emissioni infrarosse della Terra. Eppure un gruppo di fisici e ingegneri della Harvard School of Engineering and Applied Science (SEAS), guidati guarda caso da un italiano, ha avuto questo guizzo di immaginazione e lo sta sviluppando. Il capogruppo è Federico Capasso, che con gli infrarossi ci sa fare. Lo scienziato italiano, che da anni lavora in Usa ed è da tempo in odore di Nobel, è ben noto come co-inventore del laser a infrarossi “quantum cascade” e per aver spiegato un elusivo fenomeno di elettrodinamica quantistica come la forza di Casimir repulsiva; per queste ricerche ha già ricevuto la Medaglia d’Oro SPIE, il Premio della European Physical Society per Elettronica Quantistica e Ottica e il Jan Czochralski Award. Ora si è buttato nel settore del cosiddetto “energy harvesting”, cioè la “raccolta” di energia da tutte le possibili fonti, soprattutto da quei residui di energia che andrebbero sprecati come sottoprodotti di altri fenomeni.
Il fenomeno sul quale si è concentrato Capasso è nientemeno che la vita del Pianeta Terra nel suo complesso, considerandolo nella sua qualità di emettitore di energia. La Terra infatti, come tutti i corpi caldi, emette continuamente nel freddo spazio circostante radiazioni elettromagnetiche in particolare nelle lunghezze d’onda del medio-infrarosso (mid-IR), cioè tra 2,5 e 50 micron; è una gamma – secondo Capasso – piuttosto trascurata dello spettro: anche in spettroscopia è sempre stata considerata una zona molto difficile su cui lavorare, almeno fino a quando sono nati i laser a cascata quantica. Ma era una sorta di pregiudizio. Superando le remore che vedevano come controintuitivo generare energia sfruttando la radiazione in uscita dal pianeta piuttosto che quella in entrata, gli scienziati di Harvard si sono messi a fare i conti e hanno immaginato addirittura due possibili modalità di sfruttamento dei mid-IR terrestri, descrivendole sull’ultimo numero di PNAS , nell’articolo “Harvesting renewable energy from Earth’s mid-infrared emissions”.
La prima si basa su un procedimento analogo a quello dei un generatori di energia solare termica e traduce in pratica uno dei principi fondamentali della termodinamica: la differenza di temperatura genera lavoro. L’apparecchiatura dovrebbe consistere in due piastre: una “calda” alla temperatura della Terra e una “fredda” posta al di sopra, rivolta verso l’alto. Quest’ultima dovrebbe essere fatti di materiale ad alta emissività, che raffredda irradiando calore verso il cielo in modo molto efficiente. Sulla base di una serie di misure delle emissioni infrarosse eseguite in Oklahoma, i ricercatori stimano che la differenza termica tra le piastre potrebbe generare energia dell’ordine di qualche watt per metro quadrato; e ciò ininterrottamente, giorno e notte.
Il secondo dispositivo proposto sfrutta un principio analogo a quello delle celle fotovoltaiche. Si basa su differenze di temperatura non come quelle che tutti possiamo percepire con le nostre mani ma come quelle tra componenti elettronici – diodi e antenne – su scala nanometrica (cioè del miliardesimo di metro). Qui la spiegazione è molto meno intuitiva. Bisogna risalire, come ha fatto Capasso, a degli schemi circuitali proposti nel 1968 da John B. Gunn – inventore del diodo Gunn utilizzato nei radar della polizia – e poi dimenticati. Bisogna ricordare che in un circuito elettrico i componenti generano spontaneamente corrente in entrambe le direzioni, per il noto fenomeno del rumore elettrico. Ebbene, gli schemi di Gunn mostrano che se un componente, ad esempio un diodo, è a una temperatura superiore rispetto a una resistenza, esso spingerà corrente in una sola direzione, producendo una tensione positiva.
Il team di Capasso suggerisce di affidare il ruolo della resistenza a un microscopica antenna che emette molto efficiente radiazione terrestre infrarossa verso il cielo, raffreddando gli elettroni solo in quella parte del circuito. Il risultato, dicono ad Harvard, è che si ottiene una corrente elettrica direttamente dal processo di radiazione, senza il passaggio intermedio del raffreddamento di un oggetto macroscopico». Nell’articolo su PNAS si parla di rivestire una singola piastra con molti di questi piccoli circuiti e di puntarla verso il cielo. Questo approccio optoelettronico alla “raccolta” di energia può passare dalla teoria alla pratica grazie ai recenti sviluppi tecnologici nel campo della cosiddetta “plasmonica”, dell’elettronica su piccola scala, dei nuovi materiali come il grafene, e dei progressi nella nanofabbricazione. Ci sono, certo, alcune difficoltà tecniche da superare, ma i collaboratori di Capasso sono fiduciosi: «Ora che abbiamo capito quali sono i vincoli e quali le specifiche richieste, siamo in una buona posizione per lavorare alla ingegnerizzazione del progetto».