Si è portati a pensare al problema della giustizia come a qualcosa che ha senso solo in rapporto al suo contrario, cioè l’ingiustizia. È un sentire comune, legato ad una nozione di giustizia esclusivamente come questione sociale e tutt’al più giuridica. Un sentire che spiega, in parte, la distanza – sia pure piena di ammirazione, di consacrazione e di rispetto – con cui la cultura occidentale continua ancora oggi a trattare l’opera di Franz Kafka. Ci sono molti modi per censurare il potenziale di un’opera: delimitarla in un terreno prestabilito e per sua natura inaccessibile (il mondo ebraico), vincolarla a determinati parametri storici e geografici non più ripetibili (la Praga d’inizio Novecento), trasformarla in un episodio di una storia troppo complessa per essere compresa (la letteratura yiddish).
C’è però un luogo pulsante nell’opera di Kafka, un epicentro di scomoda e pericolosa attualità, che riguarda una concezione della giustizia diversa: radicata nella felicità e, oseremmo dire, nella “logica” dell’individuo. Se c’è qualcosa di assolutamente umano nell’uomo, questo qualcosa è – per Kafka – una primitiva, strutturale rivendicazione della giustizia: un diritto alla giustizia che si trova a monte di qualsiasi altra connotazione naturale.
Il romanzo più noto ed emblematico dell’opera di Kafka è, come si sa, Il processo: scritto tra il 1914 e il 1915 e pubblicato postumo nel 1925 (fu solo la volontà dell’amico ed esecutore testamentario Max Brod a permetterne la stampa, lì dove l’autore voleva distruggerlo), non ha da allora praticamente mai conosciuto eclissi. La vicenda è apparentemente molto semplice: un procuratore di banca praghese, Josef K., una mattina viene accusato senza nessun motivo e senza alcuna spiegazione da un ignoto tribunale. Lo svolgimento del romanzo è la narrazione della lotta tra K. e lo sconosciuto Tribunale che lo accusa: una lotta – ed è l’aspetto più importante del romanzo – non tanto per evitare la condanna, quanto per conoscere la ragione del processo.
Non è una differenza da poco. C’è qualcosa infatti, in Kafka, che è superiore alla paura della pena, ed è l’insensatezza della punizione. Quanto più, anzi, la pena sarà terrorizzante, tanto il vero pericolo sarà che questa pena appaia priva di qualsiasi significato. L’atteggiamento nevrotico che ne consegue porterà K. quasi a immaginare e addirittura a supporre l’esistenza di una propria colpa anche lì dove non avrebbe mai pensato potesse esserci: rispetto ad un mondo dove il bene non ha nessuna capacità di essere riconosciuto e distinto dal male, tanto varrà (e anzi sarà più sensato, più “logico”) convincersi del fatto che tutto sia male.
Il paradosso non sta quindi nella pena, ma nel processo stesso: nella presunta Legge che ad esso presiede. È significativo, infatti, che il vero e più grande cruccio di K. stia non nel non aver saputo evitare la sentenza, ma nel non aver appreso in cosa consista la Legge che lo condanna: se la realtà è tale (e per questo differisce dal sogno) sulla base del suo essere regolata da una legge, proprio sulla base di quella legge si potranno distinguere il bene e il male, e l’uomo potrà sapere il significato dei propri atti. Tanto l’uomo di Kafka è incapace di essere legiferatore di se stesso e porre in sé la propria unità di misura, tanto più la Legge gli appare come qualcosa di dato, di esterno: senza di essa l’uomo non ha criterio per giudicarsi, per valutare i propri gesti, e – in ultima istanza – per capire chi è. Negato alla possibilità di conoscere la Legge, l’uomo è interdetto anche alla giustizia: e poco importa se da essa riceva o meno dei benefici.
Senza una conoscenza della Legge, l’uomo è definitivamente strappato al suo significato. E dato che la lettera della legge è sempre ulteriormente interpretabile, la sua verità è sempre inesorabilmente lontana, irraggiungibile, impassibile ad un tentativo di rapporto. Ci sono molti giudici, e si può anche incontrarli, ma la Legge per sua stessa natura (e qui sta forse la sua crudeltà) non è incontrabile. Non ha carne, ma solo declinazioni; non ha sguardo, ma solo norme. Colpisce infatti che, in un universo ricco di personaggi e di incontri, K. non riesca ad avere un reale rapporto umano con nessuno: è un universo, il suo, le cui figure non si toccano mai veramente. La famosa angoscia kafkiana latita in uno stato di solitudine. Al punto che, quando K. opponendosi ad uno dei sicari del tribunale afferma di non conoscere la Legge in base alla quale viene arrestato, questi – paradossalmente, eppure con una logica radicale – ribatterà: “Ammette di non conoscere la Legge e, al tempo stesso, afferma di essere innocente”.
Se il significato della vita non è accessibile all’uomo, il processo penale finirà con il coincidere con la vita stessa: e la vita, prima ancora della morte, ne sarà la pena. Il romanzo segue un progressivo ed inquietante allargamento del processo: pagina dopo pagina, si scopre che tutto – non solo le aule delle udienze, ma anche le persone, i funzionari, le case, le strade, gli uffici e le chiese –, tutto appartiene al Tribunale. Il processo si allarga fino a coincidere con il mondo e con l’esistenza intera: diventa macroscopico, si allarga a coprire l’orizzonte.
Ma quanto più soffocante diventa l’oppressione, tanto più qualcosa si ribella – un’emergenza di giustizia, una speranza, risorge anche nel punto di maggiore avvilimento, in uno tra i finali più dirompenti e vitali che la letteratura europea abbia mai conosciuto.
È il momento in cui Josef K. viene prelevato e condotto fuori dalla città per l’esecuzione; e anche lì, nell’estremo finale, non è la rassegnazione a dominare, né la sconfitta; ma il desiderio che uno giunga, anche nell’ultimo secondo, per accorrere – per salvare: “Il suo sguardo si fissò sull’ultimo piano della casa confinante con la cava di pietra. Come una luce sfolgorante si aprirono d’un colpo le imposte di una finestra, un uomo, che per la distanza e dell’altezza pareva debole e sottile, si sporse con impeto in avanti tendendo le braccia ancora più in fuori. Chi era? Un amico? Un buon uomo? Uno che prendeva parte? Uno che voleva aiutare? Era uno solo? Erano tutti? C’era ancora salvezza? C’erano eccezioni che si erano dimenticate? Certo, qualcuna c’era. La logica è certo incrollabile, ma non resiste ad un uomo che vuole vivere. Dov’era il giudice che non aveva mai visto? Dov’era l’alto tribunale fino al quale non era mai arrivato?”.