L’ultimo libro di Norberto Bottani, edito dal Mulino e dedicato alle politiche dell’istruzione su scala Ocse, reca il titolo Requiem per la scuola?, dove l’allusione liturgico-funeraria è mitigata da quel punto interrogativo, che segnala riflessioni dubitanti e speranze in filigrana.
L’autore è stato per anni un dirigente principale dell’Ocse-Ceri e direttore del Dipartimento per la ricerca educativa del Cantone di Ginevra. Ha scritto molti libri, alcuni dei quali dedicati alla condizione del sistema educativo in Italia, che ama con amore ipercritico, essendo egli uno svizzero ticinese, figlio di immigrati italiani da una valle di Bergamo.
Il libro esordisce con l’affermazione che “il primo decennio del XXI secolo ha profondamente modificato il panorama delle politiche scolastiche a livello mondiale e di riflesso anche in Italia”.
Il principale fattore di cambiamento è stato il programma di indagine Ocse-Pisa (Programme for International Student Assessment), che, al termine di un cinquantennale lavoro di elaborazione del modello, ha cominciato dal 2000 ogni tre anni a comparare i risultati degli apprendimenti a livello mondiale. Questa operazione ha levato ogni alibi alle classi dirigenti e alle opinioni pubbliche, quelle italiane in primo luogo, che ritenevano di godere del miglior sistema di istruzione al mondo.
Un secondo fattore è stato quello della crisi economico-finanziaria del 2008. Le risorse pubbliche sono diventate scarse, sono diminuite quelle per l’istruzione in quasi tutti i Paesi del mondo, così che, osserva Bottani, “la caratteristica principale del decennio trascorso è senza dubbio il freno all’espansione continua dell’apparato scolastico”.
Il primo dei due capitoli, in cui è suddiviso il libro, è dedicato alla “crisi dei sistemi scolastici”. I sistemi scolastici pubblici stanno franando dappertutto. I sistemi educativi sono stati inventati per svolgere due funzioni: una educativa, una politica. La prima mira all’educazione integrale della persona, la seconda alla conservazione dei rapporti sociali esistenti, “educando” all’obbedienza e all’acriticità. Le due funzioni si stanno disconnettendo. Così, saltando la connessione tra scuola e società, l’apparato scolastico annaspa nel vuoto. Affiorano qui, nel discorso di Bottani, gli stilemi critici di Althusser sulla scuola come “apparato ideologico di Stato”. La scuola sta diventando “un parcheggio per coorti di giovani”. Dalla scuola-esercito di fondazione napoleonica alla scuola-parcheggio. In questo contesto, gli insegnanti si muovono “come fantasmi tra le macerie”.
Se “il modello tradizionale di scuola statale è esaurito”, se ne può fare a meno?
La domanda non è affatto peregrina. Del resto esistono esperienze non statali, quale quelle descritte da Sugata Mitra dell’Hole in the Wall a quelle del self-organized learning, che lo stesso Sugata Mitra ha formalizzato in un nuovo modello di scuola, Sole (Self Organized Learning Environments).
Il secondo capitolo del libro è intitolato: Quanto siamo lontani dall’eguaglianza scolastica. La certezza che i sistemi di istruzione generino uguaglianza è messa in discussione dall’esperienza e da una serie di ricerche.
Non si vedono i benefici sociali della scolarizzazione di massa, benché, ovviamente, nel corso degli ultimi 150 anni a qualcosa sia servita. “Più si studia, meglio è”? La sociologa francese Marie Duru-Bellat ha messo in discussione questo assunto nel libro, che Bottani cita, L’inflation scolaire. Insomma, il pensiero unico sulla bontà della scuola copre con la sua retorica le disuguaglianze reali e il cattivo trattamento dell’infanzia in molti Paesi del mondo, Italia compresa. Massificazione dell’istruzione, prolungamento della sua durata, investimenti statali massicci contribuiscono poco o nulla a contrastare le diseguaglianze che nascono dalla lotteria della vita. “La riduzione del legame tra il livello di istruzione e posizione sociale è in gran parte attribuibile alle conseguenze dell’inflazione dei diplomi scolastici”: così Camille Peugny. La tesi di Dubet e altri è che, alla fine, ciò che conta è il Ses (lo status economico sociale) di partenza. Le teorie del merito o della democratizzazione degli studi coprono effetti di disuguaglianza reale. Le ricerche inglesi Millennium Cohort Study sviluppate dal 2000 dimostrano che a tre anni le differenze di capacità sono notevoli, dopo la scolarizzazione diminuiscono solo un po’.
L’avvento dei digital natives, quelli nati dopo il 1980, non sembra affatto sollevare i destini egualitari dei sistemi scolastici. Anzi! Il mondo della generazione Y (la Y è la lettera dell’alfabeto che simboleggia gli onnipresenti auricolari) non risulta né più equo né più giusto.
La conclusione è secca: le politiche scolastiche che si proponevano di combattere le disuguaglianze sociali nell’istruzione “hanno fallito il loro bersaglio”.
E allora? Denis Meuret, citato da Bottani, distingue due tipi di politiche scolastiche, una viziosa (quella italiana) e una virtuosa (quella svedese). La politica viziosa: equità nei bassi livelli di competenze tra individui e gruppi sociali; il livello medio delle competenze è debole come quello delle élites; le disuguaglianze sociali reali restano intatte. La politica virtuosa: il sistema non seleziona precocemente per tutta la durata della frequenza obbligatoria e insiste fortemente sul benessere educativo degli studenti. La società svedese, va aggiunto, è socialmente meno diseguale di quella italiana. Ciò detto, vale anche per i sistemi nordici la legge di ineguaglianza rispetto all’istruzione. L’idea di dare a tutti delle competenze di base, quale tentata dalla Francia, è a sua volta fallita. Perciò occorre rimettere in discussione il sapere scolastico, il curriculum, così come storicamente è stato organizzato fin dal Medioevo e, a seguire, dall’Illuminismo. È significativo il fatto che la scuola ormai non riesce più neppure “a far rispettare e a imporre la propria lingua”.
La conclusione di questo secondo e ultimo capitolo tocca l’Italia. Il sistema scolastico italiano è riuscito in 150 anni almeno ad alfabetizzare il Paese, anche se dalle comparazioni internazionali appare che nel 1870 l’Italia era un Paese poco istruito e nel 2011 è sottoistruito.
Le sei pagine finali, oltre i due capitoli, sono dedicate agli insegnanti. I sistemi scolastici non sono cambiati, si sono riprodotti “con pervicace costanza”. Gli studenti e gli insegnanti, invece, sì. Dal punto di vista culturale, il cambiamento più penetrante è quello che ha riguardato l’approccio costruttivista all’insegnamento, che pone al centro l’apprendimento, dunque il bambino e l’allievo. Va osservato che l’epistemologia di Piaget, completata dalla psicologia dell’età evolutiva, non è comunque una pedagogia. Il costruttivismo si è limitato a dimostrare che il bambino è un essere attivo che tende naturalmente verso l’autonomia e la cooperazione. In ogni caso, neppure le pedagogie costruttiviste hanno “migliorato le disuguaglianze scolastiche”. E questo perché “esse si costituiscono e si rafforzano nel seno stesso delle interazioni didattiche quotidiane, all’insaputa degli attori di queste interazioni”. Ne consegue, raccomanda Bottani, che occorrerebbe cercare di aprire la “scatola nera” di quelle interazioni, a partire dagli insegnanti.
Fin qui, dunque, l’autore. Quali interrogativi di fondo insorgono da questo libro ricco di analisi, di ricerche su ricerche, di disamine di proposte?
Dalle pagine di Bottani ne emerge uno sciame, che qui si può solo catalogare. Perché l’ideale illuministico-rivoluzionario e moderno dell’uguaglianza dei punti di partenza nella corsa della vita − sia nella versione politico-ideologica del progressismo sia in quella funzionalista-economica dell’Ocse, della Banca mondiale ecc… – perseguito attraverso i sistemi di istruzione, è fallito? La sinistra, da Marx in avanti, ha sempre pensato che toccasse allo Stato, conquistato per via rivoluzionaria o parlamentare dal movimento operaio, realizzare l’uguaglianza, correggendo la lotteria diseguale della società. L’istruzione è appunto un pezzo dello Stato. Occorre prendere atto che quell’uso dello Stato è fallito. È fallito per incapacità e cattiva volontà delle politiche o perché è irrealizzabile? Si urta qui contro metafisiche occulte, concernenti la società, l’uomo e la storia, che sorreggono l’intera costruzione analitica e prescrittiva di Bottani. Ha senso attribuire ai sistemi di istruzione un traguardo impossibile e poi criticarli perché non riescono a raggiungerlo? Oppure: l’eguaglianza sociale è un ideale realistico – salvo specificare meglio il suo orizzonte concettuale – ma lo strumento di istruzione-educazione non basta? Se è così, forse occorre rivedere i paradigmi educativi, a partire dal curriculum, tutto costruito sull’idea illuministico-enciclopedica originaria. Più sai e più sei uguale? Insomma, incomincia di qui la discussione…