Caro direttore,
riprendo volentieri gli spunti emersi in un contributo uscito su queste pagine su un tema di importanza cruciale. Dice bene, l’autore, quando individua la necessità della personalizzazione dell’apprendimento e dell’insegnamento se si vuol vivacizzare e attualizzare davvero la scuola.
Dice bene anche quando parla di “intenzioni di riforma” perché di “fatti di riforma” non c’è a mio parere alcuna traccia negli ultimi 15 anni.
Ma certamente, la personalizzazione dell’apprendimento è una cosa in linea non tanto con le necessità scolastiche, visto che la scuola è una palude senza linee di forza interne, quanto con le consuetudini esistenziali della nostra epoca e pertanto oggi qualunque ambito organizzativo, rinunciando ad applicarle, diventa inevitabilmente giurassico ed indigeribile sia per operatori che utenti.
Ormai la gente in tutti i campi trova flessibilità e possibilità di adattamento alle proprie specifiche esigenze. Nel lavoro, nei trasporti, nella comunicazione. Solo la nostra scuola statale è rimasta uguale, nei secoli fedele a se stessa, ma secondo me non tanto per resistenze mentali quanto per la necessità di garantire al docente statale l’orario di servizio settimanale corto e sempre uguale.
Il contratto di lavoro del docente statale italico è quanto di più anomalo possa esistere. Non ha eguali in Europa e nel mondo. Un orario di servizio tutto giocato sulla lezione frontale e pari a circa 600 ore annue. L’insegnante statale sta a scuola circa 165 giorni l’anno cioè 5 giorni alla settimana per le 33 settimane canoniche su cui è spalmato l’anno scolastico di svolgimento del curricolo delle lezioni.
Quando l’alunno non c’è anche l’insegnante non c’è: Natale, Pasqua, luglio e agosto, occupazioni, scioperi, gite. Gli insegnanti, sempre più donne, col loro orarietto in mano a somma 18 ore settimanali, arrivano a scuola ogni giorno ad ore differenti e terminano ugualmente in modo differente. Conseguentemente nella scuola, sembra incredibile, la comunicazione tra i docenti praticamente non esiste, è comunque infinitamente inferiore a quella di impiegati colleghi di lavoro in qualunque altro ambito.
La routine più meccanica scatta dal momento del fatidico orario definitivo fino al termine delle lezioni. Da ottobre a giugno. Guai a chi modifica l’orario solenne delle lezioni. Guai a chi ipotizza un utilizzo a scuola dei docenti nei tempi, oggi lunghissimi, di vacanza delle lezioni. Ad esempio la normativa attuale consente l’insegnamento stagionale cioè una dislocazione delle discipline diversa tra primo e secondo quadrimestre purché la somma annuale delle ore di insegnamento resti costante e pari a 1000. I vantaggi sarebbe molti, a partire dalla riduzione delle discipline che l’alunno deve seguire ogni giorno che potrebbe vedere quasi un dimezzamento. Ma ciò non avviene perché implica un orario diverso da semestre a semestre e ciò per i docenti è intollerabile.
Completamente diversa è la situazione dei docenti regionali o delle scuole non statali dove l’orario di servizio è superiore alle 30 ore settimanali spalmato su tutte le settimane dell’anno salvo le ferie. Qualche scuola comunale ha invece adottato lo schema statale, ad esempio a Milano, acquisendo subito le dinamiche della scuola di Stato. Con la sola differenza che il trasferimento e quindi il pendolarismo sud-nord-sud non è ancora possibile e questo rende le scuole comunali meno appetibili delle statali per il nomadismo docente, il fatidico carosello dei docenti.
Proprio la riforma del contratto di lavoro dei docenti è secondo me la base di una maggiore flessibilità dell’insegnamento e dell’apprendimento e solo se si vedrà una volontà in quella direzione si potrà sperare. Subito dopo o durante la riforma dei contratti di lavoro (tempo pieno o part time per i docenti e servizio tutto l’anno sganciato dalle lezioni) potrebbe avvenire la scissione tra tempo classe e tempo scuola. Oggi le due cose coincidono. L’alunno se è a scuola è in classe. Per assurdo se due studenti volessero fermarsi a scuola a studiare dopo il termine delle lezioni non sarebbe possibile.
Oggi l’alunno italiano, sembra un paradosso, sta troppo in classe (il massimo di tempo scuola in Europa con 1000 ore l’anno contro le 750-800 dei paesi col più alto successo formativo) e contemporaneamente poco a scuola. Separando le due cose, riducendo drasticamente il lavoro a classe intera, 3-4 ore al giorno, meglio 3, si potrebbe dilatare a parità di costi l’apertura dell’istituto scolastico, che oggi viene chiuso appena terminano le lezioni e che invece così facendo potrebbe restare aperto da mane a sera e trasformarsi in un centro di svariate attività opzionali tra le quali ogni alunno – spontaneamente o consigliato – potrebbe circolare per arricchire il proprio zaino.
L’eliminazione immediata del lavoro a classe intera secondo me è impossibile anche se evocata varie volte. Non è compatibile con le abitudini del corpo docente e degli alunni stessi. Servirà una fase non so quanto lunga di coesistenza tra lavoro a classe intera e lavoro mirato nella quale potrà variare gradualmente la funzione docente con tutto ciò che consegue o precede, il contratto, la formazione iniziale, la formazione in itinere, la carriera, le regole di assunzione, i criteri di valutazione del lavoro svolto e dei risultati.
Con una pressione costante ed uniforme, in una decina di anni si potrebbe cambiare la faccia della scuola. Ma c’è questa volontà? Per ora non la vedo. Vedo il sindacato fermo a difendere lo status quo ed i commentatori e gli analisti, sempre più disperati, intenti a lanciare visioni e speranze nella palude. Situazione tragica.