Il tungsteno ha segnato la storia della luce elettrica, in qualità di materiale brevettato a fine Ottocento per realizzare il filamento delle lampadine che hanno acceso le città della Belle Époque. Poi, dopo un secolo di onorato servizio, si è visto soppiantare dai LED e la sua luce è stata spenta anche legalmente con la messa al bando delle lampadine ad incandescenza. Ma ora potrebbe ritrovare un suo ruolo, in un’altra forma, proprio nei LED. L’origine tecnologica di LED, cioè la loro radice microelettronica, fa sì che per la loro realizzazione gli sviluppi e le novità non si fermino. Sono di questi giorni due notizie arrivate dalle due coste opposte degli Stati Uniti, dai laboratori del MIT di Boston e della University of Washington di Seattle; sono veicolate dalle pagine della rivista Nature Nanotechnology e raccontano di avanzamenti nella possibilità di costruire LED sempre più piccoli, sottili e al tempo stesso più potenti e più efficienti. Il team di ricercatori del MIT, guidati dal fisico Pablo Jarillo-Herrero, ha utilizzato un nuovo materiale che ha uno spessore di appena pochi atomi per creare dispositivi in grado di sfruttare o emettere luce.
Il materiale, chiamato diseleniuro di tungsteno (WSe2), fa parte di una classe di materiali a singola molecola di spessore che sono da qualche tempo oggetto di indagine per i loro possibili impieghi nei nuovi dispositivi optoelettronici, cioè quelli basati sulla manipolazione delle interazioni tra luce e conduzione elettrica. Nei loro esperimenti, i fisici di Boston sono riusciti a utilizzare questo materiale per produrre diodi, cioè i mattoni fondamentali della moderna elettronica, caratterizzati dalla possibilità di far fluire elettroni in una sola direzione. Tipicamente i diodi sono materiali “dopati”, cioè derivati da un processo irreversibile di iniezione di atomi estranei dentro la struttura cristallina di un materiale ospite; utilizzando materiali diversi per tale processo, è possibile effettuare uno o l’altro dei due tipi fondamentali di materiali semiconduttori: il tipo p e il tipo n. Con il nuovo materiale, si possono ottenere sia le funzioni di tipo p che quelle di tipo n semplicemente portando il film sottile a stretta vicinanza di un elettrodo metallico e variando la tensione dell’elettrodo da positiva a negativa.
In tal modo il materiale può facilmente e velocemente passare da un tipo all’altro, cosa che è molto difficile ottenere con i semiconduttori convenzionali. Una volta realizzati i diodi, è possibile produrre tutti e tre i dispositivi optoelettronici fondamentali: i fotorivelatori, le celle fotovoltaiche e i LED; e il gruppo di Jarillo-Herrero li ha realizzati tutti e tre; naturalmente in prototipi da laboratorio, che ora attendono lo scaling up per dimostrare la loro validità su scala industriale. In linea di principio – dicono i ricercatori – un materiale come questo può essere ingegnerizzato per produrre dispositivi con molte proprietà interessanti: si potrebbero realizzare LED che emettono qualsiasi colore e, dato che il materiale è così sottile, trasparente e leggero, potrebbe servire per costruire celle solari o display da inserire nelle finestre degli edifici o delle autovetture veicolo, o anche da incorporare negli indumenti.
Anche il gruppo di Seattle, guidato dal professore di scienza dei materiali Xu Xiaodong, ha lavorato con il diseleniuro di tungsteno ma si è concentrato sul problema della sottigliezza, arrivando a strati di soli tre atomi ma ancora meccanicamente resistente. Stiamo parlando di strati di spessore inferiori di diecimila volte rispetto allo spessore di un capello umano e di dispositivi dalle dimensioni dell’ordine di un decimo o un ventesimo dei LED attualmente disponibili. I dispositivi realizzati nei laboratori della University of Washington sono costituiti da fogli piani di diseleniuro di tungsteno e i fogli sottili sono stati ottenuti con la tecnica “del nastro adesivo”, resa celebre dai due fisici dell’Università di Manchester, Andre Geim e Konstantin Novoselov, vincitori del premio 2010 Nobel per aver estratto, appunto con quel metodo, sottili strati di grafene da un pezzo di grafite.
Oltre alle applicazioni nella emissione di luce, questa tecnologia potrebbe aprire le porte all’impiego della luce al posto degli elettroni nei chip a nano-scala dei futuri computer, evitando il dispendio di calore prodotto dal movimento degli elettroni. Ora gli scienziati di Seattle stanno lavorando per rendere più efficiente il processo di produzione dei nuovi dispositivi e per analizzare il comportamento di questi materiali bidimensionali nelle varie configurazioni nelle quali possono essere “impilati”. Hanno anche visto che questi materiali sembrano reagire alla luce polarizzata in modi totalmente nuovi, come mai era accaduto a nessun altro materiale: da ciò stanno intravedendo ulteriori possibili applicazioni. L’appuntamento è per un prossimo numero di Nature Nanotechnology.