Forse gli interventi e le progressive correzioni di rotta del ministro Profumo sull’ora di religione possono essere un’occasione per ripensare la questione. Qualche volta un’uscita improvvisa è almeno un sasso nello stagno. È vero ad ogni modo che nelle sue dichiarazioni il ministro lascia la sensazione di non conoscere a sufficienza l’articolato della materia: da parecchio tempo non si tratta più di catechismo, e i valori culturali e l’apertura alle altre fedi e altri settori dell’esperienza umana sono centrali, come confermato da indicazioni che Profumo ha di recente sottoscritto (si veda l’Intsa tra il Miur e la Cei, siglata in data 28 giugno 2012 dal ministro Profumo e dal cardinale Bagnasco). Un intervento su temi di competenza ministeriale dovrebbe essere probabilmente meglio calibrato sulla situazione reale anziché sembrare frutto del sentito dire o di variabili equilibrismi politici.
In realtà il lavoro degli insegnanti di religione, che così rischiano di vedere ulteriormente messa in discussione la loro autorevolezza nei rapporti con i ragazzi disincantati che li attendono nonché con colleghi spesso diffidenti, andrebbe esaltato: riescono ancora a farsi scegliere dalla maggioranza degli studenti italiani, nonostante che l’ora sia facoltativa. L’alternativa molto spesso è semplicemente uscire o entrare prima: è inutile spiegare quanto sia difficile lottare contro questa tentazione, ovviamente diseducativa, e discriminatoria nei confronti degli studenti che si avvalgono invece dell’ora. Non so quante materie se fossero opzionali allo stesso modo potrebbero vantare buone percentuali di adesione. E al contrario, che bellezza scegliere liberamente una materia anziché seguirla obbligatoriamente come tutte le altre.
Certo, è inutile negare che spesso l’insegnamento della religione risente di tali condizioni. Spaventato dall’ipotesi dell’abbandono degli studenti e da una pressione sociale spesso non simpatizzante, e privo per farsi seguire dell’arma di una materia che faccia media negli scrutini, l’insegnante ha la tentazione di alleggerire il proprio impegno e quello degli studenti. Se prova a fare di più, le proteste, o almeno un certo sbalordimento, sono garantiti; se fa di meno, l’accusa che sia un’ora inutile è scontata. Alla fine si scivola verso blande lezioni di tono etico tra studenti impegnati a ripassare per l’ora successiva: proprio quello che non serve anzitutto ai giovani italiani, che rischiano di non sapere più nulla del gigantesco patrimonio culturale cristiano e dunque di capire molto peggio quello che li circonda.
Ma da questo rischio si esce, eventualmente, facendo della religione non una figliastra ma una realtà a pieno titolo tra le altre materie. E in questo quadro va inserito anche un progetto impegnato che risponda alle esigenze dei figli degli immigrati, ai quali peraltro andrebbe offerto di seguire l’ora di religione per capire la storia e la cultura del Paese che li ospita. Anche se sono meno di quanto pensa Profumo, sono numerosi e diventeranno sempre di più; almeno in prospettiva, si potrebbe perfino pensare, come propose Adolfo Urso, di avviare corsi facoltativi di altre religioni: in lingua italiana, e con indicazioni ufficiali che rispettino la stessa apertura di quelle per la religione cattolica. Ma anche così problemi concreti non mancherebbero.
Tuttavia le scelte di Profumo possono fare sospettare uno schema culturale molto più profondo di quello che potrebbe essere affrontato e smontato da osservazioni di buon senso e semplici accertamenti non ideologici della realtà. Sia le abilitazioni universitarie con l’uso scriteriato (e malfatto) di criteri bibliometrici, sia la boutade dei tablet nelle scuole, lasciano intravedere una forma mentis tecnocratica nel senso peggiore. Il governo precedente ci aveva deliziato con le tre I (internet, inglese, impresa), con scarsi risultati. Non si tratta di negare l’utilità in senso strumentale di quei tre aspetti, ma è opportuno dubitare del loro valore pedagogico. In realtà l’ingenuità di chi pensa seriamente che distribuire i tablet nelle scuole abbia qualcosa a che fare con il progresso della didattica è preoccupante.
L’abolizione dell’identità culturale di un Paese, laddove invece essa è più necessaria e cioè proprio nel rapporto con gli stranieri e proprio in tempi in cui tale memoria culturale è sempre più labile o assente, va di pari passo con il feticismo della distribuzione casuale di ritrovati tecnologici dal dubbio valore didattico. Nello stesso senso va l’ipotesi di sostituire i corsi di religione con un’etica laica passepartout che dovrebbe tamponare l’urgenza dei comportamenti sociopatici che rischiano di diventare epidemia. La tecnocrazia ha questo sintomo inconfondibile: non l’uso di mezzi tecnici, che è antico come l’umanità; ma la tecnica che diventa terapia onnicomprensiva nei confronti di problemi scottanti e irrisolti. In realtà, senza ripensare che studenti vogliamo, ossia che immagini dell’uomo vogliamo proporre, qualunque tecnica rischia di essere una banale fuga in avanti.