Ha un titolo promettente, “L’ambientalista ragionevole”, il libro di Patrick Moore che esce in questi giorni in Italia (Dalai) ma il suo interesse è accentuato se si considera il titolo originale dell’edizione americana che recita “Confessions of a Greenpeace dropout” ovvero “Confessioni di un fuoriuscito da Greenpeace”. Sì perché l’autore è stato uno dei fondatori, nel 1971, di Greenpeace e presidente della nota associazione ambientalista; per poi lasciarla quindici anni dopo, in profondo disaccordo con le posizioni “estremiste e irrazionali” assunte dagli ex compagni.
Di quella esperienza, parlando nei giorni scorsi a Milano in un incontro promosso dalla Fondazione EnergyLab, così ha sintetizzato la cifra distintiva indicandola come “la filosofia del no”: «Oggi il pensiero verde è solo pensiero negativo, basato sui no» e ha elencato una serie di posizioni “anti” che lo hanno spinto a lasciare l’organizzazione: «Ho lasciato Greenpeace perché i suoi militanti sono diventati anti umani, anti scienza, anti tecnologia, anti commercio, anti globalizzazione, anti industria; senza peraltro avere un modello alternativo da proporre». Ma era una tendenza presente fin dall’inizio – ammette Moore – che col tempo si è esasperata: «Eravamo bravissimi a dire alla gente cosa doveva smettere di fare, ma non sapevamo aiutarla a capire cosa invece avrebbe dovuto fare».
Una posizione che ha assunto i toni del massimalismo intollerante sul finire degli anni Ottanta quando, col collasso del comunismo mondiale «il movimento pacifista era in gran parte allo sbando … e molti di coloro che vi avevano fatto parte aderirono al movimento ambientalista, portandosi dietro le proprie priorità, ispirate ai presupposti del neomarxismo e dell’estrema sinistra. In gran parte, pertanto, il movimento ambientalista venne dirottato dai suoi obiettivi originari dagli attivisti politico-sociali che si servivano del linguaggio verde per camuffare programmi che avevano più a che fare con anticapitalismo e l’antiglobalizzazione che non con la scienza o l’ecologia».
Nei suoi ultimi anni di militanza Moore aveva capito che bisognava andare “oltre il puro attivismo ambientale” e si era battuto per promuovere campagne improntate al concetto di sviluppo sostenibile: «Ma, malgrado i miei sforzi, a metà degli anni Ottanta il movimento volse le spalle alla scienza e alla logica, e ciò proprio mentre la società si appropriava dei temi più ragionevoli del nostro programma ambientale».
La rottura è stata netta e irreversibile. Anche se ammette che “lasciare Greenpeace non è stato facile”; è stato soprattutto il suo schieramento pro nucleare e pro OGM che ha suscitato reazioni pesanti e umanamente difficili da sopportare. C’è da dire che anche dopo il disastro di Fukushima, Moore resta convinto della sua opzione a favore delle centrali nucleari: osserva infatti che benché ci siano stati gravissimi e catastrofici incidenti a centrali idroelettriche (ad esempio in Cina) o a impianti chimici, non per questo ci si schiera contro quel tipo di centrali o quel settore industriale.
L’uscita da Greenpeace non ha comunque ridotto il suo impegno in difesa dell’ambiente, come dimostra ampiamente il libro appena uscito e l’intensa attività svolta attraverso l’associazione Greenspirit, che ha fondato allo scopo di promuovere un ambientalismo che non veda l’uomo come “un errore dell’evoluzione” e non assecondi la “scellerata tendenza a dipingere la specie umana come una disgrazia per la Terra”; e che gli permetta di andare “in cerca di soluzioni più che di problemi”.
Per questo nei suoi numerosi incontri pubblici propone, come ha fatto energicamente a Milano, anzitutto un’azione educativa: «Bisogna educare le giovani generazioni al pensiero critico. A partire dall’attenzione e precisione del linguaggio. È facile purtroppo trasformare un ‘potrebbe’ in un ‘può’ e quindi dare per assodati comportamenti della natura che sono solo possibilità. Come pure è abitudine di molta propaganda ambientalista scambiare quello che è solo un nesso (ad esempio tra un’attività umana e un parametro ambientale) in un legame di causa-effetto». Molti bambini imparano presto a condannare la CO2considerandola un micidiale inquinante, senza sapere che quest’ultimo non è un termine propriamente scientifico e soprattutto senza prendere coscienza che la CO2 è la sostanza più importante per la vita, che il ciclo del carbonio è essenziale per assicurare lo sviluppo degli organismi viventi.
Forte del suo dottorato in ecologia all’università della Columbia Britannica, Moore ha sempre sostenuto un ambientalismo che poggi su solide basi scientifiche e ora lavora per “individuare il giusto equilibrio”, raccogliendo quella considera la vera sfida per l’ambientalismo cioè «inserire nel tessuto economico-sociale della nostra cultura i valori ambientali che avevamo contribuito a creare» e ciò «senza mettere a repentaglio l’economia e, insieme, in modi socialmente accettabili».
A volte questo può significare fare scelte coraggiose, ad esempio in campo energetico, che sappiano fare i conti con le condizioni e i costi reali e con tutti gli elementi in gioco. Se gli chiedete cosa ne pensa delle energie rinnovabili, dirà anzitutto che bisogna guardarsi dal considerarle come “moralmente superiori” e che non va sottovalutata la fondamentale differenza tra fonti continue e fonti intermittenti, come il Sole e il vento. Queste, in attesa di adeguate tecniche di immagazzinamento, restano economicamente troppo svantaggiose e insistere su di esse in modo esclusivo porta più svantaggi che vantaggi; meglio investire sulle fonti pulite ad alta resa e larga scala, come idroelettrico, geotermia, nucleare. Purtroppo, conclude ribadendo quanto aveva affermato qualche anno fa in un’intervista al New York Times,«il movimento ambientalista, con le sue posizioni intransigenti, è diventato il principale impedimento al contenimento delle emissioni di gas da fonti fossili».