Ho letto con interesse l’articolo, apparso qualche tempo fa su Repubblica, in cui Maurizio Bettini espone alcune riflessioni e proposte in merito alla seconda prova dell’esame di Stato (di “maturità”, come si chiamava una volta e ancora si continua a dire), che egli fa sue riprendendo quanto emerso da alcuni incontri promossi dal centro, da lui fondato e diretto, “Antropologia e mondo antico” (Ama) dell’Università di Siena.
Modificare la modalità di questa seconda prova — osserva il professor Bettini — contribuirebbe immediatamente allo “svecchiamento” del liceo classico. In sostanza, si osserva, non è chiaro lo scopo di una prova del genere: presupporrebbe infatti l’esistenza di un latino, a cui ricondurre le modalità espressive dei singoli autori, i cui passi, estrapolati dal contesto, dovrebbero essere comprensibili appieno in ogni loro aspetto.
L’argomento, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, è di vivo interesse, almeno tra gli “addetti ai lavori”: ne è nato infatti, per esempio, un carteggio tra il prof. Bettini stesso e il prof. Spina, in cui ambedue, in sostanza, confessano di esser stati abilissimi traduttori al tempo del loro liceo classico, ma di essere (al tempo) sostanzialmente rimasti estranei alla conoscenza del mondo classico nella sua cultura e nella sua vita reale. In altre parole, una volta ci si poteva aspettare da uno studente in uscita dal liceo classico una buona o anche ottima capacità traduttiva, ma (anche) in quell'”epoca d’oro” lo studente non arrivava a incontrare pienamente quei tempi antichi.
Certamente nessun “professionista” si accingerebbe all’opera di traduzione di un autore senza prima essersi documentato sull’epoca, la vita, l’ambiente, gli orientamenti dell’autore stesso: su quanto insomma possa illuminare e contestualizzare, appunto, il testo (un’opera intera o un breve passo) da tradurre. Allo studente che deve superare la prova conclusiva degli studi liceali, invece, come sottolinea il prof. Bettini, si fornisce, insieme al nudo testo e al titolo (non sempre illuminante sull’effettivo contenuto del brano), solo il nome dell’autore, non necessariamente scelto tra quelli incontrati nel corso del quinquennio, senza l’indicazione dell’opera da cui il passo è tratto.
Addirittura non infrequente è il caso in cui il passo viene “sforbiciato”: da un testo forse ritenuto troppo lungo si tolgono proposizioni o periodi che evidentemente si ritengono non essenziali per la comprensione del contenuto. Né, per altro, si può parlare di comprensione in senso pieno: sono sempre rari infatti gli studenti che non si accontentano di una trasposizione in una approssimativa lingua italiana, compromesso minimalista tra la pura traduzione letterale dei vocaboli, riordinati secondo la sintassi della lingua italiana, e una versione che utilizzi termini registrati dai dizionari ma non per questo di uso corrente né, men che meno, adeguati al registro linguistico o al linguaggio settoriale congruenti con il passo.
La tradizione scolastica ha comunque sempre operato secondo questa prassi: anche le versioni proposte durante i compiti in classe nel corso degli studi sono assegnate semplicemente con l’indicazione dell’autore. Certo, il più delle volte, almeno durante gli ultimi tre anni del liceo, l’autore è lo stesso dei brani su cui ci si è in vario modo esercitati nel periodo precedente, ma si tratta piuttosto dell’operazione inversa di quella suggerita dal prof. Bettini: infatti il “bravo professore” assegna come versioni domestiche testi dell’autore che lo studente ritroverà anche nella versione in classe in modo che lo stile gli sia più familiare, e non perché il contenuto del passo possa essere contestualizzato. Ma, come il gatto che vuole mordersi la coda, la prassi scolastica non cambia perché l’esame finale richiede questa abilità (mai raggiunta e forse mai raggiungibile).
Ne è riprova il fatto che non appena si conosce la lingua oggetto della seconda prova d’esame (latino, oppure greco) la maggior parte degli insegnanti utilizza per l’altra lingua, quella di cui non ci sarà prova scritta all’esame, prove alternative: passi ben contestualizzati di opere note, domande sugli aspetti culturali del testo, talvolta proposta di più testi da confrontare eccetera; insomma proprio quello che i docenti partecipanti agli incontri promossi dal centro Ama dell’università di Siena auspicano per l’esame di Stato.
Da sempre il liceo classico ha messo in atto questo tipo di prova: ma, se in tempi passati esistevano studenti capaci di tradurre perfettamente, anche dal greco al latino (come conferma il prof. Spina), ora la traduzione sembra non essere più proponibile (lo sa bene non solo chi deve preparare in classe gli studenti, ma ancor più chi si ritrova a dover correggere le versioni d’esame), e anche questo sembra essere un tassello che rafforza l’interrogativo sull’attualità del liceo classico, così come la nostra storia ce lo ha trasmesso, tradizionalmente “fiore all’occhiello” dell’istituzione scolastica italiana.
Mi domando dunque quale sia stata la ratio che ha portato, nei tempi passati, a prevedere prove d’esame così formulate, ovvero un programma di studio congruente con tali prove finali: traduzione in italiano dal latino e dal greco ma anche in latino (e, in tempi ancor più antichi, in greco) dall’italiano.
Non sono qualificata per un’analisi precisa e obbiettiva in questo campo, posso solo esporre qualche impressione. Tradizionalmente, gli studi classici erano studi delle “belle lettere”, frequentare il liceo classico significava coltivare quell’humanitas che appunto (come Cicerone insegna) non punta all’utile immediato ma diventa sommamente utile per essere veri uomini (per vivere appieno tutto); allora anche il gusto della bella lingua, in qualche modo senza altro fine che la bellezza stessa, richiedeva e permetteva di comporre con eleganza, nella lingua italiana come in quella latina. Non voglio proporre qui una laudatio temporis acti, certamente (e intrinsecamente) anacronistica, anzi condivido pienamente le osservazioni dei proff. Bettini e Spina, ma, spostando un poco la questione, desidero semplicemente osservare che la dimensione di gratuità, nel senso proprio di dimensione non utilitaristica, è comunque essenziale per una buona scuola.
Anche il (doveroso) ripensamento di programmi e metodologie, e di conseguenza delle prove d’esame, non può che partire dalla consapevolezza e dalla riaffermazione che la scuola ha funzione educativa e per ciò stesso non utilitaristica. Un percorso educativo deve a priori riconoscere che la persona ha valore intrinseco, cioè è sede di un bene indipendentemente da quello che sa fare, e perciò non è un barattolo da riempire ma neppure un congegno da addestrare. Una scuola senza altro spazio che “conoscenze, competenze, abilità” e conseguenti certificazioni, non potrà mai essere all’altezza del desiderio delle famiglie, né di quello degli studenti. Forse gli studi liceali, da tanti considerati anacronistici, sono uno dei pochi moniti rimasti perché non perdiamo la consapevolezza che la scuola deve innanzitutto educare l’umano e non addestrare il cittadino o, peggio ancora, preparare l’abile lavoratore (il bravo cittadino e il lavoratore competente possono solo essere conseguenza del risveglio di un desiderio di intrapresa che caratterizza l’umano, ma che — parlo per esperienza professionale — la scuola invece talora soffoca).
Questa dimensione di gratuità forse sembrerà a qualcuno poco concreta, o irrealizzabile nel nostro mondo, scolastico e non scolastico; ma io non posso pensarlo, come non lo può pensare chiunque abbia fatto un’esperienza simile a quella che, per esempio, mi è recentemente capitata, quando una classe intera, affascinata dall’esordio della prima Catilinaria di Cicerone (quel famoso Quo usque tandem…), addirittura ha manifestato contrarietà perché il suono della campanella chiamava all’intervallo. Di tanto il bello supera l’utile immediato!