Un po’ diario, un po’ racconto di vita vissuta in forma romanzata, ma svelta e sorridente, Qualcosa di diverso di Marcella Manghi Catania narra la storia di una giovane sposa catapultata dalla sonnacchiosa provincia emiliana alla turbinosa vita metropolitana di Milano, sulla scia, per certi versi, della avventurose disavventure del suo più celebre conterraneo, il Giovannino Guareschi della Scoperta di Milano. Il libro della giovane autrice potrebbe anche portare come sottotitolo, facendo il verso a un celebre titolo di Simenon, Una provinciale a Milano: ma, si noti, l’aggettivo “provinciale” non è qui assolutamente inteso secondo una connotazione negativa. Anzi, soltanto la giovane neolaureata “di buona famiglia” – come si sarebbe detto un tempo – può misurare tutta l’assurdità di certe ossessioni e nevrosi cittadine, proprio per il fatto di provenire da una realtà completamente diversa da quella in cui è solita vivere, perfettamente ambientato, la sua dolce metà. E proprio in nome della scelta di formare una famiglia con questo aspirante filosofo così differente dai ragazzi conosciuti sino a quel momento, e così marmoreo nelle sue certezze, anche al netto delle sue bizzarrie, tutto acquisisce un significato. Così, parte della forza del libro sta proprio nella spontaneità e nell’entusiasmo con cui descrive l’impatto – è il caso di dirlo – di abitudini e consuetudini cittadine su una ragazza che, dapprima un po’ perplessa, accetta l’alea di seguire il neomarito a Milano per iniziare un’esistenza che sia davvero “qualcosa di diverso” rispetto ai piani concepiti in astratto durante l’adolescenza.
Sotto l’egida della citazione pavesiana in esergo (“La fantasia è immensamente più povera della realtà”), e senza mai perdere il sorriso, Marcella misura l’assurdità di alcune ossessioni tipicamente cittadine, a partire dalla ritualità happy-hour-e-cinema (con strascichi a orari imprevisti e improponibili per chi fosse abituato ai ritmi pacati delle serate in provincia, stile “cinema in paese-camomilla – e alle undici tutti a nanna”); ma c’è anche la vacanza al mare tra amici (cui il fidanzato si porta un’inquietante valigiona piena zeppa non di magliette, ma di libri); la lotta con gli spazi risicati degli interni milanesi (una guerra da cui i nostri eroi escono vincitori arredando la loro camera con un magnifico letto rialzato dotato di armadio-guardaroba sotto il livello dei materassi; soit dit en passant, saremmo curiosi di ammirare questo gioiello di ingegneria civile); il lavoro nell’anonimo ufficio di una multinazionale, di cui l’autrice fotografa con precisione la ritualità.
Certo, tutto questo è molto diverso dalla realtà che i genitori di Marcella immaginavano e speravano per lei, nata e vissuta sotto “una campana di vetro, un coperchio trasparente e blindato posato su di uno scampolo di campagna” (p. 66). In questa rassicurante realtà di paese tutti sanno tutto di tutti, con precisione diremmo chirurgica nel tranciare i panni addosso al prossimo.
“Se per la teoria dei sei gradi di separazione, infatti, si possono connettere persone sconosciute per mezzo di soli cinque intermediari, in un paesello con poche migliaia di abitanti, questo si traduce in una eccezionale catena informativa: sfruttando anche meno di cinque conoscenze (purchè quelle giuste) si riescono a far saltar fuori dichiarazioni dei redditi, fedine penali e test dell’Hiv degli ultimi tre anni” (p. 67): vivendo in un’analoga realtà, posso assicurare che è tutto verissimo, e, anzi, grazie ai rumores di tacitiana memoria, si può risalire molto più indietro nel tempo: altro che tre anni!
Ovviamente, se però l’aspirante marito della figlia viene persino da Milano, il discorso cambia; e, per giunta – orrore! − non è nemmeno automunito, peccato capitale in una realtà, come quella paesana, in cui le quotazioni Mibtel di un giovane uomo sono valutate come direttamente proporzionali alla cilindrata della macchina. Sono proprio questi e altri particolari a lasciare inizialmente perplessi, non tanto i genitori, quanto la protagonista stessa, quasi incredula di fronte a quanto le accade. A partire dal brusco cambio di progetti e aspettative circa il lavoro: “Oltre a una campana antiatomica, se restassi al paese (e quindi rinunciassi a rincorrere il mio promesso) avrei un lavoro pronto per la mia laurea fresca. Anzi, un signor lavoro ambito da fior di coetanei: un’occupazione da figlia d’imprenditore” (ibid.). Ma una vita così senza imprevisti, una via così preordinata “spianata come un’autostrada di cemento appena steso” non è quello cui, coraggiosamente, la protagonista sente di essere chiamata.
E così inizia la sua avventura cittadina, riscaldata dall’affetto della sua nuova famiglia, presto arricchita da tre vivaci e impegnativi bambini, e in cui l’originalità del sempre innamorato marito porta sempre una ventata di “qualcosa di diverso”: un episodio per tutti è quello in cui il consorte, dopo avere conseguito una seconda laurea, valuta molto seriamente la possibilità di un dottorato in psicologia negli Usa. In questo frangente, la giovane moglie, sempre pronta a fantasticare, con un occhio, però, da buona laureata in matematica, alla realtà, forse si immagina già mollemente allungata su una spiaggia californiana, o a scorrazzare per Rodeo Drive: mentre, in realtà, è forse un bene che il progetto alla fine non vada in porto, perché l’università opzionata era quella di Ann Arbor, dove, data la latitudine, si sta comodamente immersi nella neve sino al ginocchio per cinque mesi all’anno e in cui si rischia di rimpiangere persino il clima di Milano. Insomma: ogni vita familiare è sorprendente, e, a modo suo, indimenticabile e unica, perché, come scrive l’autrice, è solo quando si lascia agire il Mistero, che si possono scoprire tante cose impreviste sul prossimo, ma, soprattutto, su noi stessi.
Insomma…ma chi l’ha detto che la vita di famiglia è noiosa?
Marcella Manghi Catania, “Qualcosa di diverso”, Ares, Milano 2013