1968. Sono passati quarant’anni, e da destra a sinistra non si contano più le celebrazioni della ricorrenza di quella contestazione giovanile che cambiò parecchie cose nella nostra società. Dai rapporti uomo-donna a quelli figli-genitori, dal rapporto del singolo verso il datore di lavoro a quello con lo stato e l’autorità costituita. Se poi le cose siano cambiate in meglio o in peggio, ognuno può avere il proprio punto di vista, ovviamente.
Però è lecito fare una considerazione. Di tutte le promesse, le utopie, i sogni che venivano instillati nella mente dei giovani di allora, davvero poco o nulla è stato portato a concreto compimento. L’inflessibile tribunale della storia ha già espresso i suoi verdetti, ed i protagonisti della contestazione di allora o si sono persi nel nulla, o si sono riciclati in mille modi, o hanno fatto pubblica ammenda per gli errori commessi.
Esiste invece un caposaldo del 1968 che non solo ha resistito all’usura degli anni, ma che oggi rivela ancora tutta la sua estrema attualità nonché il portato profetico di allora. Si tratta dell’enciclica “Humanae Vitae”, che il 25 luglio di quell’anno l’allora pontefice Paolo VI consegnò ad un mondo che era attraversato da numerosi sconvolgimenti, specie in materia di morale sessuale, controllo delle nascite, origine e natura del rapporto d’amore fra uomo e donna.
La scorsa settimana, presso la Pontificia Università Lateranense, si è svolta una delle poche commemorazioni serie del 1968, proprio perché l’oggetto in questione era il 40° anniversario di quella enciclica. “Custodi e interpreti della vita”, questo era il titolo del convegno, promosso da monsignor Rino Fisichella (Rettore dell’Università Lateranense), ed al quale hanno partecipato relatori di spessore internazionale, tra cui Gian Maria Vian (direttore de “L’Osservatore Romano”), il professor John Michael McDermott (università di Detroit), il dott. Claudio Risé (università Milano-Bicocca), la prof.ssa Janne Matlary (università di Oslo), il prof. Francesco D’Agostino (università Tor Vergata-Roma), il prof. Serge-Thomas Bonino (Institut Catholique di Tolosa), la prof.ssa Marta Brancatisano (Istituto Superiore di Scienze Religiose all’Apollinare).
Ciliegina sulla torta, è stato poi l’intervento personale di Papa Benedetto XVI che sabato ha posto fine ai lavori.
Lucetta Scaraffia, altra relatrice del convegno, è stata puntualissima nello smascherare i detrattori che allora denigrarono la “Humanae Vitae” come”“Enciclica della pillola” e che la assursero ad emblema della chiusura e dell’intransigenza ecclesiale in materia sessuale. Alla sua uscita, l’enciclica venne criticata sia a causa del già citato scenario culturale che la circondava, sia perché veniva contestata “tout court” alla Chiesa la possibilità di parlare di sesso. Quale epilogo del processo di secolarizzazione iniziato nel secolo precedente, il mondo non le riconosceva ormai più la legittimità di intervenire in tema; una legittimità che da allora in poi è stata esclusiva solo per l’ambito scientifico, soprattutto medico. Di conseguenza, venne aspramente contestato il contenuto dell’enciclica riguardante la morale sessuale cristiana. L’assoluta libertà sessuale, teorizzata ampiamente in quegli anni, ha poi attraversato tutto il resto del Novecento, ma solo al termine del secolo scorso la società occidentale, o almeno una parte di essa, è finalmente riuscita a guardare in modo critico a quell’utopia, i cui esiti sono stati decisamente deludenti. La ricostruzione da parte della Scaraffia dello scenario culturale in cui si è mossa la rivoluzione sessuale ha portato ad una conclusione speranzosa: se la diminuzione delle nascite non si è affatto rivelata un toccasana per i mali e le infelicità del mondo, forse è proprio perché oggi stiamo toccando con mano il fallimento dell’utopia della pianificazione familiare e della libertà sessuale, ed il panorama generale è più capace di leggere quella profetica enciclica.
Ma da dove proviene dunque la forza di un’enciclica che ha attraversato i decenni senza perdere minimamente la sua attualità, anzi rafforzando il suo portato? Indiscutibilmente nel suo porre fortemente l’accento sulla necessità di ribadire il senso salvifico della “relazione”. La relazione con la persona amata, con i figli, con il prossimo, con la vita e la sua accettazione, e soprattutto con Dio. Claudio Risè ha infatti posto l’accento sulla relazione, primaria e fondante, tra l’uomo e la donna. Quella relazione che oggi sembra essersi ormai smarrita, in favore di un modello di vita coniugale rovesciato rispetto al magistero della Chiesa, sia a causa di interventi legislativi che dai costumi imposti dai media e dalla pubblicità ai più suggestionabili.
Inoltre, dice Risè, «Nella nostra epoca, caratterizzata dall’estensione del processo di secolarizzazione alla famiglia, e al rapporto coniugale, il rapporto di amore tra uomo e donna, è stato separato dalla sua sorgente originaria. La chiusura al terzo, che il credente identifica col Padre e il non credente spesso non definisce, avvertendolo però nella sua alterità radicale, è all’origine di quella «crisi del dono»(…)L’originaria relazione con Dio viene espulsa da queste esperienza, e con essa, la disponibilità e il sapere di quel reciproco donarsi che l’aveva caratterizzata. Subentra allora (come in tutti gli aspetti della secolarizzazione) un’esperienza profonda di vuoto, nella quale l’individuo non si sente più legato dall’originaria dipendenza della situazione creaturale: forse può definirsi libero, ma è anche terribilmente solo».
Ed è in questa solitudine che anche le scelte di impedire una procreazione divengono confinate nella sfera privata del singolo. Dice la professoressa Brancatisano: «Nel suo messaggio di risposta alla cultura della contraccezione, l’Humanae vitae ha inteso contestare la scelta di tenere fuori dall’unione la propria capacità generativa, giacché in questo modo si rende parziale ciò che era invece totale. E se sul piano fisico questa riduzione è pienamente evidente, essa rimane invece nascosta sul piano spirituale. La cultura della contraccezione ha spostato l’amore umano dal suo status originario di somiglianza con Dio a quello umano dove è l’uomo da solo che disegna se stesso e la vita. Un disegno che intende annullare i rischi che inavvertitamente carica uomo e donna di una responsabilità solitaria».
Ma dopo quarant’anni la scienza sta svolgendo un ruolo decisivo non solo per impedire il concepimento, cosa che ormai è entrata come “consueta” anche nella mente di molti quindicenni, ma rendendolo possibile anche al di fuori della relazione di amore tra un uomo e una donna, spostandolo fisicamente dal corpo umano alla stanza di un laboratorio. Per questo Eugenia Roccella ricorda che «Nella misura in cui il modello propugnato oggi è quello dell’adulto autosufficiente, ecco che la dimensione relazionale viene negata in radice; e deboli, vecchi, bambini e malati vengono necessariamente posti fuori fuoco. Eppure l’essere umano nasce dipendente, dipendente da un corpo in cui si sviluppa e dal quale riceve cure e nutrimento. E se l’essere nato di donna è l’esperienza che ci plasma nell’assunzione profonda del significato dell’amore come dono, ecco che la prassi ora considerata accettabile di selezionare il proprio figlio in laboratorio inquina il senso della maternità, il senso di un’accoglienza a prescindere dalle intrinseche qualità di chi nasce».
Inevitabilmente, un altro scottante tema al quale i relatori hanno dato grande spazio è stato proprio quello del significato e del ruolo della tecnica. Paolo VI fu chiaro: «La Chiesa impegna l’uomo a non abdicare alla propria responsabilità per rimettersi ai mezzi tecnici». Il giurista D’Agostino, nel suo ottimo intervento, pone l’accento sul fatto che le applicazioni tecniche e scientifiche sono diventate parte integrante della nostra vita quotidiana. Dal 1968 ad oggi questo frenetico progresso ha spostato il suo baricentro dalle scienze chimiche-fisiche a quelle medico-biologiche, e la bioetica è divenuta pratica sociale. Ecco perché “è così necessario rimarcare come il cuore dell’enciclica non sia stato lo stereotipo diffuso che vuole la Chiesa nemica e timorosa della tecnica, quanto piuttosto il fondamento della responsabilità che l’uomo non può proiettare fuori di sé, se non al prezzo di negare la sua stessa libertà. Se la tecnica, infatti, può rendere possibile il nostro dominio di noi stessi, non lo rende però di per sé meritorio, cioè moralmente buono, perché la tecnica non contiene in se stessa le proprie ragioni. La biomedicina e le biotecnologie ci consentono di dilatare immensamente l’ambito di controllo funzionale della realtà del vivente, ma non ne favoriscono una migliore percezione di senso, perché la funzionalità è intrinsecamente cieca, dato che non contiene in se stessa il proprio fine. Ciò che nella tradizione occidentale viene denominato legge naturale altro non è che tale percezione di senso. Il punto è fondamentale: prima ancora che il termine bioetica venisse coniato, l’Humanae vitae aveva colto la consistenza di un problema aperto nella modernità come una ferita e che è tutt’ora il nostro. Se le biotecnologie introducono una possibilità del tutto nuova di manipolare il vivente, questo richiede la nostra attenzione non solo per le potenzialità di pericolo che tale manipolazione porta con sé, ma soprattutto per la dimensione di potenza che la contraddistingue. Ebbene, alla potenza biomedica e biotecnologica, occorre opporre le ragioni di una radicale indisponibilità che deve essere al contempo, non solo simbolica, politica e ontologica, ma anche, seguendo l’insegnamento dell’enciclica, indisponibilità etica, ma che forse sarebbe meglio qualificata come indisponibilità antropologica. L’uomo infatti non può autoconferirsi una dignità, non più di quanto egli possa inventare un senso da donare alla realtà e al suo stesso agire. L’uomo non è uomo perché così egli sappia e voglia costruirsi, ma perché è stato voluto e costruito da un altro-da-sé. La dignità non è un prodotto, ma un dono il cui valore va semplicemente riconosciuto».
Infine, sabato mattina in chiusura dei lavori, è stato Papa Benedetto XVI che con le sue consuete capacità di sintesi e di estrema chiarezza è riuscito a riproporre appieno tutti i fondamenti di questa enciclica:
«A quarant’anni dalla sua pubblicazione quell’insegnamento non solo manifesta immutata la sua verità, ma rivela anche la lungimiranza con la quale il problema venne affrontato. Di fatto, l’amore coniugale viene descritto all’interno di un processo globale che non si arresta alla divisione tra anima e corpo né soggiace al solo sentimento, spesso fugace e precario, ma si fa carico dell’unità della persona e della totale condivisione degli sposi che nell’accoglienza reciproca offrono se stessi in una promessa di amore fedele ed esclusivo che scaturisce da una genuina scelta di libertà (…)Quanto era vero ieri, rimane vero anche oggi. La verità espressa nell’Humanae Vitae non muta; anzi, proprio alla luce delle nuove scoperte scientifiche, il suo insegnamento si fa più attuale e provoca a riflettere sul valore intrinseco che possiede. La parola chiave per entrare con coerenza nei suoi contenuti rimane quella dell’amore. Come ho scritto nella mia prima Enciclica Deus caritas est: «L’uomo diventa realmente se stesso quando corpo e anima si ritrovano in intima unità… Non sono né lo spirito né il corpo da soli ad amare: è l’uomo, la persona, che ama come creatura unitaria, di cui fanno parte corpo e anima1». Tolta questa unità si perde il valore della persona e si cade nel grave pericolo di considerare il corpo come un oggetto che si può comperare o vendere. In una cultura sottoposta alla prevalenza dell’avere sull’essere, la vita umana rischia di perdere il suo valore. Se l’esercizio della sessualità si trasforma in una droga che vuole assoggettare il partner ai propri desideri e interessi, senza rispettare i tempi della persona amata, allora ciò che si deve difendere non è più solo il vero concetto dell’amore, ma in primo luogo la dignità della persona stessa. Come credenti non potremmo mai permettere che il dominio della tecnica abbia ad inficiare la qualità dell’amore e la sacralità della vita (…)E’ urgente che riscopriamo di nuovo un’alleanza che è sempre stata feconda, quando è stata rispettata; essa vede in primo piano la ragione e l’amore. Un acuto maestro come Guglielmo di Saint Thierry poteva scrivere parole che sentiamo profondamente valide anche per il nostro tempo: «Se la ragione istruisce l’amore e l’amore illumina la ragione, se la ragione si converte in amore e l’amore acconsente a lasciarsi trattenere entro i confini della ragione, allora essi possono fare qualcosa di grande2». Cos’è questo qualcosa di grande a cui possiamo assistere? E’ il sorgere della responsabilità per la vita, che rende fecondo il dono che ognuno fa di sé all’altro (…) Si assiste sempre più spesso, purtroppo, a vicende tristi che coinvolgono gli adolescenti, le cui reazioni manifestano una non corretta conoscenza del mistero della vita e delle rischiose implicanze dei loro gesti. L’urgenza formativa, a cui spesso faccio riferimento, vede nel tema della vita un suo contenuto privilegiato. Auspico veramente che soprattutto ai giovani sia riservata un’attenzione del tutto peculiare, perché possano apprendere il vero senso dell’amore e si preparino per questo con un’adeguata educazione alla sessualità, senza lasciarsi distogliere da messaggi effimeri che impediscono di raggiungere l’essenza della verità in gioco. Fornire false illusioni nell’ambito dell’amore o ingannare sulle genuine responsabilità che si è chiamati ad assumere con l’esercizio della propria sessualità non fa onore a una società che si richiama ai principi di libertà e di democrazia. La libertà deve coniugarsi con la verità e la responsabilità con la forza della dedizione all’altro anche con il sacrificio; senza queste componenti non cresce la comunità degli uomini e il rischio di rinchiudersi in un cerchio di egoismo asfissiante rimane sempre in agguato».
Cfr Spe Salvi par.5
Cfr. Guglielmo di Saint Thierry, Natura e amore, 21,8.