Almeno per il gran giro di soldi, regali e sdolcinerie, San Valentino è ancora la festa degli innamorati, sebbene il troppo impegnativo fidanzamento tenda a farsi soppiantare dalle storielle usa e getta. Comunque sia, in fondo «chi non è in coppia non è un uomo moderno, come chi non beve Petrus o Cynar». Cinquant’anni fa Pasolini aveva visto col solito occhio lungo, quando azzardava che la presenza delle ragazze durante le partitelle dei ragazzi mandava in soffitta la prostituzione classica, visto che «tutti i ragazzi maschi anche (e soprattutto) minorenni, hanno il loro “sfogo”» gratis, a bordo campo. Era il 1972, e oggi è un’ovvietà: «mentre per esempio fino ad alcuni anni fa, per un adolescente avere la ragazza era un’aspirazione giusta, anche se repressa e tenuta in cuore — nelle lunghe more degli androcei — ora la ragazza è un obbligo: un obbligo appunto perché essendo più facile averla, e ce l’hanno subito tutti, guai a chi non ce l’ha. Il terrore di essere senza ragazza crea dunque l’obbligo dell’accoppiamento, e quindi la nascita di un numero enorme di coppie artificiali, non unite da altro sentimento che quello conformistico di usare una libertà che tutti usano».
L’adolescente che non si accoppia si sente uno sfigato, perché tutti hanno le loro avventurette, e la regola suprema vuole che “se non si fanno adesso certe cose, quando si devono fare?”. Questa è la «libertà obbligatoria» imposta dagli adulti (adolescenti inside), questa l’agghiacciante prospettiva che, dietro il pressante invito a divertirsi, cela un’istigazione al suicidio: perché se non resta che godersela finché si è giovani, e poi arriva il peggio, tanto vale spararsi prima. Non è il momento di puntare in alto, e lasciamo perdere se un legame dura o non dura, tanto l’amore è solo una parola e l’eterno non ne parliamo nemmeno. Come se il cuore non registrasse comunque un disagio, quando si accontenta di un orizzonte effimero. Giorgio Gaber aveva 24 anni quando cantava: «Molti mi dicono: ma cosa cerchi? cosa pretendi? Non fare il nevrotico! Hai una ragazza che ti vuol bene, ti lascia libero, non ti fa scene». Manca qualcosa, c’è poco da fare.
A 19 anni Cesare Pavese scriveva: «Tu sei per me una creatura triste, / un fiore labile di poesia, / che, nell’istante stesso che lo godo / e tento inebriarmene, / sento fuggire lontano / tanto lontano, / per la miseria dell’anima mia, / la mia miseria triste. // Quando ti stringo pazzamente al cuore / e ti suggo la bocca, / a lungo, senza posa, / sono triste, bambina, / perché sento il mio cuore tanto stanco / di amarti così male».
Proprio nella foga del trasporto, basta essere sinceri per accorgersi che non siamo capaci di amare come l’altro meriterebbe. I «brevi attimi di gioia» vissuti insieme, e perfino l’«istante del possesso», non sono niente rispetto alla «gioia profonda» di cui siamo assetati. «Mi sei venuta accanto / colla promessa viva di un’aurora, / sconvolgendomi il sangue / come un grande tesoro / che si potrà conoscere / e possedere fino a sazietà. / Racchiudevi un mistero di dolore / e di gioia profonda, sconosciuta»: questa la promessa. Ma poi? «Ma non ti sei svelata. / Hai saputo il tuo gioco. / Sei ritornata a un tratto in mezzo al mondo / rinascondendo in te / il segreto degli occhi arrovesciati, / della tua bellezza più grande, / dell’attimo che gioia e sofferenza / si fanno un solo brivido».
Vallo a spiegare, alle generazioni del “che male c’è?”, che puoi far male a chi sta con te. Anzi, che sempre gli fai male quando ti illudi che possiate bastarvi. Quando dimentichi che non è lui, non è lei, che può rispondere alla tua esigenza di amare e di essere amato. Che il fidanzamento — e peggio ancora la storiella — è un surrogato dell’amore, e non ti basterà mai. Sfrecciano intanto le «motociclette da guidare come piccoli idioti arcangeli con dietro le ragazze ornamentali, sì, ma moderne» (Pasolini): vince l’uso reciproco, la prostituzione non a pagamento.
Chi ama davvero, invece, magari è l’unico che non ci prova, l’unico che non si mette con te. Ce lo ha raccontato un altro ventenne ardente, Jacopo Ortis, quando non osò nemmeno sfiorare la ragazza per cui gli scoppiava il cuore: «Non ho osato no, non ho osato. — Io poteva abbracciarla e stringerla qui, a questo cuore. La ho veduta addormentata» e, come nella struggente I’ te vurrìa vasa’, «chesti carni fresche, e chesti trezze nere me mettono into ‘o core mille malepenziere». Teresa sta dormendo, e lui, totalmente rapito, le si avvicina a un millimetro, con le mani e con la bocca: «così bella come oggi, io non l’ho veduta mai, mai. Le sue vesti mi lasciavano trasparire i contorni di quelle angeliche forme; e l’anima mia le contemplava e — che posso più dirti? tutto il furore e l’estasi dell’amore mi aveano infiammato e rapito fuori di me. Io toccava come un divoto e le sue vesti e le sue chiome odorose e il mazzetto di mammole ch’essa aveva in mezzo al suo seno — sì sì, sotto questa mano diventata sacra ho sentito palpitare il suo cuore». Un passo ancora, e finalmente avrebbe realizzato i suoi desideri: «Io respirava gli aneliti della sua bocca socchiusa — io stava per succhiare tutta la voluttà di quelle labbra celesti — un suo bacio! e avrei benedette le lagrime che da tanto tempo bevo per lei — ma allora allora io la ho sentita sospirare fra il sonno: mi sono arretrato, respinto quasi da una mano divina. T’ho insegnato io forse ad amare, ed a piangere?».
Quel sospiro nel sonno fa scoprire all’innamorato che lei non è appena l’oggetto del suo sentimento: lei esiste al di là delle sue voglie, sospira, piange, ama; è, insomma, irriducibile a te, non è roba tua. Proprio mentre ti viene da avventarti su di lei… «I’ te vurrìa vasa’, ma ‘o core nun mm’o dice ‘e te sceta’». Non posso svegliarti, non posso sfiorarti: devo imparare ad amare proprio te, e non appena quel che sento per te. Il miglior regalo di San Valentino è un passo indietro.