Diradato il fall out dell’esplosione dello sciopero promosso dai sindacati degli insegnanti il 30 ottobre, si può gettare uno sguardo limpido sul terreno.
Ecco cosa si vede, ora.
1. Lo sciopero e le manifestazioni sono stati imponenti: nella scuola e nell’Università si è accumulato e reso visibile un blocco massiccio, densamente conservatore e decisamente antiriformistico.
2. Il Pd è la testa politica di questo blocco. Con ciò il Pd si è infilato, con intelligente tattica e con ottusità strategica, in un tunnel conservatore dal quale gli sarà difficile uscire, qualora dovesse tornare al governo. Perchè ha accumulato crediti conservatori, che domani non potrà trasformare in riformisti, posto che voglia davvero riformare la scuola, come va dichiarando.
3. I mass-media hanno fatto una clamorosa “disinformatja”, senza mai offrire una chiarificazione razionale e ragionata delle questioni.
4. Il 30 ottobre segna una seria sconfitta delle forze innovatrici e riformistiche presenti nella scuola, nell’Università, nel governo, nell’opposizione.
Minimizzare le cifre della mobilitazione, quando nella scuola ha scioperato oltre il 60% degli insegnanti e circa il 30% dei dirigenti – mai accaduto, neppure nel mitico ”68! – e annunciare che si va avanti come se niente fosse accaduto potrebbe impedire di trarre la lezione dai fatti e preparerebbe la prossima sconfitta.
Qualche esponente di governo ha incominciato l’autocritica: il governo ha comunicato male! No, il governo ha comunicato benissimo… una politica incerta o sbagliata. Naturalmente qui si intende per politica non l’annunciare, il dichiarare, il dibattere, il filosofeggiare e via presenziando sui giornali e sulla Tv. Politica è modificare lo stato di cose presente con leggi, decreti, regolamenti, gesti concreti.
Dopo un decennio di tentativi di riforma del sistema educativo nazionale, promossi da Berlinguer e dalla Moratti, e dopo lo stallo di Fioroni, sull’agenda della nuova legislatura stava la ripresa del processo riformistico. Questa era, d’altronde, la promessa di Berlusconi fatta in campagna elettorale: “attuare la riforma Moratti”. Si trattava dunque di ripartire, non con una nuova legge generale di riforma, bensì lavorando di cesello sugli atti legislativi già approvati, spingendoli finalmente verso un approdo esecutivo reale. Su questo itinerario virtuale è calato il macigno del Decreto n. 112, poi Legge n. 113, di Tremonti, che chiedeva al Ministro di elaborare un Piano dei risparmi. Nulla di più ragionevole. Già Berlinguer nel 1998, già la Moratti dopo il 2001, già il Quaderno Bianco nel 2007, firmato da Padoa-Schioppa e Fioroni, avevano proposto e tentato misure severe di razionalizzazione della spesa. Toccava al Ministro dell’Istruzione fare un’analisi seria dei punti di spreco e proporre soluzioni. I “tagli lineari” dovevano e potevano trasformarsi in “tagli intelligenti”. Tremonti ci metteva i tagli, Gelmini l’intelligenza. Per costruire il Piano dei tagli non era necessario nessun inutile Decreto Gelmini, per di più approvato con la fiducia: bastava andare a prendere, all’indietro, i Decreti Moratti, già divenuti legge, ma ibernati o rinviati sine die da Fioroni, e renderli applicativi, per la via amministrativa dei Regolamenti, in materia di educazione alla cittadinanza, di modalità numerica di votazione, di maestro unico, poi rinominato “prevalente” nel corso di una conferenza stampa. Per fare questa operazione occorrevano, nell’ordine, una visione della scuola, una capacità di governo dell’apparato ministeriale, fortemente politicizzato da decenni di supplenza verso la politica, un rapporto stretto con le Direzioni scolastiche regionali e con i Dirigenti delle autonomie, un dialogo tempestivo e adulto con gli studenti. Tutto ciò è mancato. La piccola tattica mediatica quotidiana spesa a fini di consenso non ha pagato. Da decenni la scuola si è sempre riconosciuta nella Dc e nel Pci. Basterebbero un’intervista ben fatta o un’uscita televisiva a capovolgere questo dato oggettivo, costruito nei decenni e oggi ereditato dal Pd?
Che fare, dunque? Quattro cose, subito.
A) Riprendere in mano il dossier delle riforme ibernate, ma già approvate. Ogni arretramento sarebbe anche peggio dello sciopero: perché non riporterebbe nessun insegnante o dirigente sotto l’ala del governo, confermerebbe ex-post le ragioni conservatrici della protesta, di cui il Pd è il rappresentante.
B) Espellere il sindacato dalla cogestione pervasiva dei gangli dell’amministrazione e delle singole scuole. Il sindacato è contro-parte, non co-parte. Il suo mestiere legittimo è difendere la forza-lavoro, non governare le istituzioni. I contratti non possono distruggere o piegare ciò che dicono le leggi di riforma. E’ pirandelliano che alle sigle sindacali siano graziosamente concessi ogni anno 1.000 mille insegnanti, “distaccati” dalle loro cattedre di lavoro, pagati appositamente dal Ministero (ecco un taglio da fare immediatamente!), cioè dai contribuenti, per far la guerra quotidiana e capillare al Ministro di turno.
C) La cruna dell’ago di ogni riforma sono gli insegnanti. La loro condizione di sottoproletariato pubblico, colto, frustrato, non formato alla professione è intollerabile per ciascuno di loro e per i ragazzi che hanno davanti ogni giorno. I percorsi di formazione, reclutamento, differenziazione di carriera e di stipendio in base al merito non possono più attendere. Invece di filosofeggiare sulla meritocrazia, perchè non dare un colpo di acceleratore al Pdl Aprea, che si occupa di nuova governance degli Istituti autonomi e di nuovo stato giuridico degli insegnanti?
D) La nuova generazione che ci troviamo di fronte è piena di paure, scarsa di speranze, straordinariamente ragionevole e pragmatica. Non assomiglia per nulla alle generazioni di 40 anni fa. A questa generazione occorre dare ciò che non fu dato a quelle di 40 anni fa: un riformismo intelligente e concreto. Prima che anch’essa venga intossicata da quel nichilismo rivoluzionario, che fu la reazione massimalista al conservatorismo ottuso.
E che fare per chi non sta al governo, cioè per tutti noi, interessati all’innovazione e a riforme radicali? Due cose, semplici a dirsi, difficili a farsi: controinformazione, per dire la verità al Paese; controcultura, per spezzare la cappa dell’ideologia statalista e corporativa, che opprime le persone libere e attive, i “liberi e i forti”.