La settimana scorsa, per l’ennesima volta, mi è capitato di sentire una studentessa liceale che candidamente mi raccontava che in classe hanno letto alcuni canti dell’Inferno, ma che — è una triste ovvietà, purtroppo — quello su cui soprattutto la sua insegnante si sofferma sono i latinismi e le introduzioni ai canti. Meglio di niente, per carità! Solo che Dante, quel Dante che la ragazza aspettava impaziente di leggere, le era sembrato “una palla”. Allora cos’ha iniziato a fare lei, anziché lamentarsi dell’insegnante e della Divina Commedia? Si è messa a leggere i libri di Franco Nembrini. E Dante non la annoia più, perché sta scoprendo il pozzo senza fondo contenuto in quei versi, la bellezza senza paragoni di un’opera immortale, l’umanità dirompente di chi non è affatto vecchio di sette secoli, ma è arrivato sette secoli prima di noi al cuore della vita.
In questi anni Franco Nembrini ha fatto innamorare di Dante migliaia di ragazzi e di adulti. Con un metodo tanto semplice quanto profondo: si immedesima con la sua storia, la racconta, la legge, vale a dire cerca di fare i conti con l’esperienza presente nelle parole di Dante. Parole, appunto, per nulla invecchiate, ma brucianti e vere come raramente capita nei rapporti quotidiani.
Con una coraggiosa operazione, Tv2000 trasmette da domani in prima serata, per quattro lunedì consecutivi, quattro lezioni di Nembrini dedicate alla Vita nuova e a ciascuna delle tre cantiche della Commedia, già raccolte nei dvd intitolati El Dante. Vale la pena avvisare studenti, insegnanti, e chiunque sia appassionato non solo a Dante ma alla vita: sentire Nembrini che legge Dante vuol dire passare delle serate «in compagnia di Dante», cioè incontrare un uomo grande e certo, indomito, che è quanto di più necessario avvertiamo in questo momento storico.
Per Nembrini, infatti, il destinatario dei versi di Dante è «il popolo, la gente», a cui la Commedia si rivolge come «una proposta», perché tocca le nostre battaglie e i nostri drammi, la «nostra vita», perché incontra le nostre domande più profonde sulla vita e sulla morte, sull’amore e su Dio. Nessun senso avrebbe leggere Dante, nessun senso avrebbe leggere la grande poesia, se non avesse nulla da dire alle nostre domande. I poeti, sostiene Nembrini, «sono uomini come me, e son partiti dalle domande che ho io. E dico ai ragazzi: tutta la magia dello studio è questa, che possiate entrare nella Divina Commedia e dire a Dante: “provo questo, vivo questo dramma, ho queste domande, patisco queste ferite, ho questo dolore. Tu come hai fatto? Tu come faresti? E poterlo sentire rispondere”».
Il contrario di questo incontro fra un poeta e un lettore, di questa possibilità di parlare non solo di un poeta ma soprattutto con un poeta, è quella sordità ottusa che tanto spesso incombe nelle aule scolastiche: la distanza fra quanto scrive Dante e il nostro quotidiano tessuto esistenziale, fra ciò di cui si parla la mattina a scuola e ciò di cui si parla la sera fuori, determina quel disinteresse strisciante che confina tutt’al più il nostro maggior poeta tra i sommi artisti da celebrare (o tra i poeti che i ragazzi adesso si trovano a dover studiare, e di cui i genitori che anni fa frequentarono il liceo parlano al passato come di quello che un tempo anch’essi dovettero studiare), ma lo ributta fuori dal suo specifico raggio d’azione: la vita, quella normale, solita, quella infernale e attraversata da un raggio divino, quella extrascolastica ed extraletteraria.
Sentire Nembrini che racconta Dante vuol dire lasciarsi intercettare nel punto infuocato — così necessario e al tempo stesso dimenticato — in cui la poesia dantesca si accende. Nembrini comunica straordinariamente quell’humus indispensabile per accostarsi al cuore di Dante e al cuore di un’epoca, quella medievale, che nei versi della Commedia si riverbera. Lo fa con un linguaggio semplice (è un «Dante per le massaie», si vanta da subito, e la scelta di uno stile così poco accademico non rivela nessun torto, se il poeta stesso ammetteva a Cangrande di aver usato la «locutio vulgaris in qua et muliercule comunicant»). Ascoltandolo parlare, avverti la strana, anacronistica sensazione di rivivere la mentalità medievale, e al tempo stesso ne senti il singolare aggiornamento della sensibilità moderna, leopardizzata, come se quel taglio — in cui risuona evidente la genialità degli echi di don Giussani, che vibrano nell’interpretazione di Nembrini come la fioritura che non si riesce a trattenere di una lunga, innamorata figliolanza — permettesse di entrare nelle ferite sottese a una vicenda che altrimenti apparirebbe irrimediabilmente lontana: non appena nella lingua, quanto nella radicalità con cui affronta i problemi dell’esistenza, nella facilità di leggere ogni istante come gravido di significato, ogni dettaglio come un segno del destino, come una provocazione lanciata da Dio per entrare instancabilmente in rapporto con l’uomo.
È questo il livello minimo per introdursi a Dante, una modalità di lettura che non si pone affatto in alternativa a tutte le operazioni critiche che si propongano ulteriori zoom sugli infiniti e mai definitivamente risolvibili dettagli del poema, sulle letture che giustamente tendano a diventare sempre più accanitamente puntuali, che vogliano in qualche modo far parlare sempre di più Dante. Nella prima lezione Nembrini lancia appunto questa sfida, invitando ciascuno a entrare nel testo, perché potrà sorprendersi di cose che nessuno finora ha mai scoperto.
Come sentii dire una volta da Anna Maria Chiavacci Leonardi, autrice di un superlativo commento alla Commedia, a una laureanda che le chiedeva il suggerimento di un argomento nuovo per una tesi su Dante, su cui in settecento anni era stato già detto tutto: “l’argomento nuovo sei tu”, le rispose la Chiavacci, perché nessuno ha mai avuto il rapporto con Dante che puoi avere tu.
Per questo due avvertenze fondamentali: la prima, che il peggior lettore di Dante è chi potrà obiettare che Nembrini si immedesima troppo, personalizzando eccessivamente il testo dantesco. Come se esistesse un Dante oggettivo! Non esiste testo che non passi dentro una sensibilità particolare: tutto il problema è di lealtà, innanzitutto con il fondo umano, storico e culturale da cui sgorgano le pagine dantesche, e Nembrini ne ha da vendere. La seconda è che il peggior nembriniano, invece, è chi sostituisce Nembrini a Dante, chi evita la propria lettura con l’alibi di questa già splendida lettura; chi, cioè, vede il dito ma non la luna e ripete Nembrini ideologizzandolo, ma senza coglierne il tentativo metodologico: fedeltà assoluta al testo, fedeltà assoluta all’esperienza. Tanti di noi hanno detto, quasi involontariamente, dopo averlo ascoltato: “mi è venuta voglia di andarmi a leggere Dante”. Ed è questa voglia — ne sarà testimone chi lo vedrà questi lunedì su Tv2000 — che non si può tradire: quella di rimettersi in cammino, di scoprire in prima persona, di vederci sempre più chiaramente, di non dare niente per scontato. Di lasciar esplodere la bomba Dante. Sentendo che deborda da tutte le parti, che ce n’è abbastanza, insomma, per ricominciare una lettura nuova. E una vita nuova.