Il 30 maggio 1951 moriva nel Connecticut lo scrittore Hermann Broch. Nato a Vienna nel 1886 da una famiglia di ebrei benestanti, lavora dapprima nella fabbrica tessile di famiglia, coltivando privatamente i suoi interessi letterari. Conosce Musil, Rilke, Canetti e altri intellettuali del tempo. Nel 1927, venduta l’industria, decide di studiare matematica, filosofia e psicologia all’Università di Vienna. Nel 1938, in seguito all’annessione dell’Austria al Reich, viene arrestato e rinchiuso in un carcere nazista. Liberato grazie all’aiuto di un gruppo di amici, tra i quali figura anche Joyce, emigra dapprima in Gran Bretagna, poi negli Stati Uniti, dove ottiene la cittadinanza americana e la cattedra di tedesco all’università di Yale. Si converte al cattolicesimo e porta a termine La morte di Virgilio, per alcuni critici il suo capolavoro.
Il romanzo è la ricostruzione dell’ultimo giorno di vita del poeta latino e insieme il tentativo di dare forma letteraria alla crescente avversione di Broch per la letteratura, luogo privilegiato della vanità e della menzogna.
In un intreccio di elementi storici e di suggestioni derivate dall’opera di Virgilio, così carica di attesa, lo scrittore racconta come il poeta torni ammalato dal viaggio in Grecia, dove si era recato per concludere l’Eneide e si accorga dell’errore che inficia il poema, scritto non per ritrarre, ma per glorificare la grandezza di Roma. Egli vuole perciò bruciare il manoscritto che porta sempre con sé: il suo canto infatti non giunge a dire la realtà del male e neppure il presagio della salvezza.
Nelle ore che precedono la sua morte egli rivede come in sogno la sua giovinezza, ritorna ai campi di Andes, alla sua famiglia, all’amore per Plozia, ricorda la vita a Roma, con gli amici e i compagni di studi. E’ una specie di discesa agli inferi la sua, in cui rivive la nostalgia di una pace mai raggiunta; egli sente che il passato preme sul presente e che la nascita, per esser vera, anela alla rinascita e che solo così incomincia a risplendere la libertà dell’anima umana, il cui canto eterno non è inganno, ma terribile magnificenza del destino.
La sua temerarietà di poeta aveva osato avventurarsi nella selva delle voci al di là di ogni parola terrena, per giungere a un linguaggio che fosse più della musica e abbracciasse in un solo sguardo l’unità dell’essere; gli era stato concesso di vedere il compito e di porvi mano, ma la bellezza lo aveva ingannato.
A nulla vale l’affettuosa compagnia degli amici Vario e Tucca, se non a farlo penetrare di più nel suo limite di uomo: la realtà è amore e lui non aveva mai amato. Solo la parola di uno schiavo che viene dall’Oriente gli offre il conforto delle lacrime: “La maledizione di questo alterno dominio si estingue, quando nella catena delle generazioni divine appare colui che è nato dalla vergine; egli è il primo che non si ribelli: entra nel padre ed il padre entra in lui, ed uniti essi sono nello spirito, tre in uno in eterno. Tu sentisti battere il cuore della creazione, ma tu non sei ancora questo cuore; tu sei l’eterna guida cui non è dato di raggiungere la meta”.
Anche Ottaviano giunge presso il letto del morente e la conversazione tra i due è drammatica. Virgilio difende il suo proposito di bruciare il poema e l’imperatore cerca di convincerlo a lasciarlo vivere, per il suo valore civile. Entrambi avvertono l’incompiutezza della loro opera, ma l’erede di Cesare, da politico qual è, accetta il limite di ogni impresa umana. Virgilio invece rifiuta il suo poema: esso non ha raggiunto la coscienza che solo l’infinito sorregge ogni relazione privata e pubblica e per questo non è degno di permanere come aiuto ad altri uomini. Una più grande consapevolezza lo invade sulla soglia della morte: “Il sacrificio sarà l’ultima e decisiva forma della conoscenza nel mondo terrestre. Il salvatore offrirà in sacrificio se stesso per amore degli uomini, affinché da questa suprema, reale immagine dell’aiuto amoroso si dischiuda nuovamente la creazione”.