La scorsa settimana ha fatto discutere il decreto sulla scuola 104/13 che da qualche giorno, dopo aver concluso l’iter di approvazione in Parlamento, è diventato legge. L’articolo 16 stabilisce, tra le altre cose, lo stanziamento di 10 milioni di euro da destinarsi ad attività di formazione legate all’«educazione dell’affettività» secondo l’approccio dei gender studies.
Ciò che desta particolare preoccupazione è la divaricazione totale tra biologia e orientamento sessuale propugnata della teoria gender allo scopo di ottenere il pieno riconoscimento giuridico. L’ingresso di questa prospettiva non solo metterebbe a repentaglio l’idea «tradizionale» di famiglia ma rischierebbe anche di minare seriamente l’intero edificio dell’educazione umanistica. Significativa a questo proposito è la condizione della critica letteraria negli Stati Uniti dove, a partire dagli anni 70, gender studies, LGBT studies (Lesbian/Gay/Transexual), teoria postcoloniale e cultural studies hanno ormai preso possesso dei dipartimenti di letteratura comparata.
Legittimati sul piano storico dal furore rivoluzionario della liberazione sessuale e, su quello teorico, dalla critica derridariana al logocentrismo occidentale, i gender studies sono diventati uno degli approcci critici più rappresentativi del complesso fenomeno del poststrutturalismo letterario.
I padri putativi del nuovo «impero della teoria» sono francesi. Infatti, dopo Nietzsche (e la sua critica radicale alla metafisica e al concetto di verità), Freud (e l’operazione di smascheramento degli inganni della coscienza) ed Heidegger (con la sua critica all’ontoteologia e alla modalità di pensare l’essere nei termini della presenza), Foucault e Derrida hanno portato finalmente a termine l’operazione di «decentramento» del Senso proclamandone l’assenza.
Se la critica, in precedenza, aveva mantenuto un orientamento teleologico evidente (è il caso della filologia di fine ‘800 che ancorava l’analisi degli elementi lessicali, sintattici e linguistici alla decifrazione del senso ultimo del testo) o coltivato un’aspirazione «scientifica» (è il caso del formalismo russo degli anni 20 o dello strutturalismo degli anni 60), ciò era dovuto ad un tacito riferimento all’idea di «oggettività». Con Derrida, invece, viene spazzato via qualsiasi residuo di «centro» (di significato) o di «origine» ed in virtù di tale assenza – come proclama il filosofo francese – «tutto diventa discorso». Ciò significa che ogni fenomeno culturale, da quel momento, ha fatto illegittimamente il suo ingresso nella sfera di competenza della letteratura, diventando così un testo analizzabile secondo un approccio linguistico, una narrazione in attesa della sua propria destrutturazione.
Come mostra bene François Cusset in French Theory, negli Stati Uniti, sotto la spinta degli studi postcoloniali, del pensiero femminista e dei cultural studies, il poststrutturalismo di Derrida ha ricevuto una curvatura «politica».
E così l’antilogocentrismo di Derrida si è trasformato in «lotta all’imperialismo occidentale»; la categoria di oggettività, come ricorda Cusset – bersaglio della critica decostruzionista – è «diventata «sinonimo di “soggettività del maschio bianco” in maniera da inventare in realtà un rapporto del tutto inedito tra teoria letteraria e sinistra politica». Dietro alla lente distorcente degli studi postcoloniali e dei gender studies era letta gran parte delle opere letterarie. È il caso dell’Ulysses di Joyce, interpretato come un affresco delle dinamiche della razza, del potere e della differenza sessuale nell’Irlanda ridotta a colonia britannica all’inizio del ‘900.
È a questo punto che si consuma una doppio tradimento. Ricevuta l’investitura politica, la critica letteraria è diventata pressoché una teoria delle identità minoritarie, una celebrazione delle culture marginali (sia nella sua versione postcoloniale che in quella femminista legata ai gender studies) che ha misconosciuto il suo originario intento – la sovversione dell’«impero» occidentale – gettando le basi per un nuovo «impero dei simboli» e prestando così il fianco all’avanzata del consumismo capitalistico che ha trasformato i totem minoritari nei prodotti più venduti dal marketing culturale.
Il secondo tradimento è avvenuto ai danni della «politica». Nonostante la dichiarata fede nella condivisione dei principi della sinistra, il poststruttralismo non ha mai di fatto realmente sfruttato – suo malgrado – la «sponda della politica». Dopo aver inizialmente utilizzato la spinta rivoluzionaria sessantottina, la teoria critica si è trincerata dietro alle mura accademiche concentrandosi unicamente su «guerriglie semiologiche» e sul discorso testuale. Di fatto, perciò, alla «lotta di classe» dei vecchi marxisti è stata sostituita la «lotta tra testi» della sinistra linguistica.
A fronte delle precedenti considerazioni e in virtù del processo di misconoscimento dell’unicità e dello status artistico dell’opera letteraria, non sorprende che le facoltà umanistiche abbiano perso il loro appeal e che nei loro dipartimenti non ci sia più posto per ciò che è propriamente letteratura. Come osserva Marjorie Perloff in Crisis in the Humanities «nello zelo di smascherare le ideologie di queste opere e di altre connesse, i critici sembrano dimenticare ciò che li ha condotti all’Ulisse o a Cuore di tenebra in prima istanza: letteralmente, l’unicità di questi romanzi come opere d’arte […] Ma senza una ben definita nozione di perché è importante leggere testi di letteratura, sia di scrittori ben affermati sia di scrittori secondari, lo studio della “letteratura” diventa solo un dovere, un modo per distribuire in qualche modo i crediti da raccogliere».