Terza e ultima parte della sintesi dedicata all’ultimo lavoro di Giovanni Orsina, “Il berlusconismo nella storia d’Italia” (Marsilio, 2013). La prima puntata è uscita il 2 novembre, la seconda il 6 novembre.
(…) Orsina delinea un profilo di elettorato tripartito: “i politici attivi”, cioè una componente di elettorato socialmente e culturalmente centrale, competente e interessato alla politica; “gli impolitici attivi”, elettori centrali, ma convinti che non valga troppo la pena di perdere tempo con la politica; “gli impolitici passivi”, elettori socialmente e culturalmente periferici, che non dispongono di strumenti cognitivi. Il che dovrebbe indurre analisti e politologi a riconsiderare senza filtri di parte chi è il civis nobilis e chi il civis marginalis.
“Se in una società politica secolarizzata il ‘buon elettore’ è quello che per un verso capisce di politica, per un altro è sufficientemente scevro da pregiudizi e appartenenze da spostare laicamente il proprio voto a seconda dei programmi e delle performance di governo, allora in Italia sono meno del 5%”. La fortuna elettorale di Berlusconi è consistita nella sua capacità di pescare nell’elettorato “impolitico”, meno irrigidito in opzioni aprioristiche. Dunque, anche l’elettorato di Berlusconi è… intelligente! Dal punto di vista di questo elettorato, Berlusconi è riuscito ad intrecciare la linea di continuità dell’anticomunismo e quella dell’antipolitica, ambedue radicati nella società italiana. Rispetto a quanti tendono a spiegare il successo di Berlusconi con la potenza dei mezzi e con le tv commerciali, Orsina sottolinea due aspetti: i contenuti del suo messaggio e il suo radicamento nella storia italiana di lungo periodo. Da questo punto di vista la parabola ascendente/ discendente del berlusconismo è divisa in cinque segmenti temporali.
Il 1994 apre la fase del “berlusconismo d’assalto”: si scontra subito con la resistenza virulenta di élite pubbliche “formatesi all’interno di una tradizione ortopedico-pedagogica e abituate da decenni a considerarsi guide ‘moderne’ di una società arretrata”, che non potevano sopportare il radicale rovesciamento di paradigma operato da Berlusconi. E ancora meno lo potevano sopportare le élite intellettuali (giornalisti, insegnanti, scrittori, registi, burocrati ecc…), convinte della propria superiorità etica. Al punto che per abbatterlo si era giustificati a subordinare istituzioni e legalità a quell’obiettivo, benché fosse quella stessa l’accusa mossa a Berlusconi. L’intera macchina pubblica è contro. E, a maggior ragione, la magistratura, trasformatasi, almeno in parte, in un clan di difesa di interessi di casta. Alla quale, peraltro, Berlusconi stesso ha fornito buoni argomenti non solo con i suoi comportamenti, ma, soprattutto, con ripetute leggi ad personam.
Dal 1996 al 2001 è “berlusconismo di consolidamento” e di radicamento del berlusconismo. Forza Italia si trasforma in partito territoriale. Ma con ciò si apre il processo di “democristianizzazione” sia sul piano organizzativo (vedi alla voce Scajola) sia sul piano ideologico: spostamento dal polo liberale e liberista verso quello conservatore e cattolico. Come spiega Giuliano Urbani, teorico dell’intero progetto berlusconiano e fondatore di Forza Italia, riemergeva la prima Repubblica in Forza Italia.
Dal 2001 al 2006si sviluppa il “berlusconismo di governo”. All’appuntamento del governo si presentano due elementi intrecciati: la leadership istintiva e movimentista di Silvio e le strutture politiche di Forza Italia, che tendevano ad una istituzionalizzazione. Era la promessa che “l’avvento di un nuovo e miracoloso leader politico-non-politico, alla guida di una nuova e miracolosa classe politica-non-politica avrebbe costituito la soluzione semplice e rapida per ogni problema”. Di qui due punti di “fallimento”: la riforma delle istituzioni. Spinto dalla pulsione populistica di immediatezza, non ha costruito le mediazioni politiche necessarie. Le istituzioni non sono mai diventate una priorità. L’altro punto è quello del rapporto tra Stato e società civile italiana. Berlusconi ha “finto” che la società italiana fosse già liberale. Ma nel mutato clima dei primi anni duemila, la finzione è svanita: “dopo centocinqunt’anni di ortopedia e di pedagogia, la società italiana era stracolma di Stato. Frenata, ingessata – ma pure aiutata, sostenuta, pagata dallo Stato”. Per il populismo berlusconiano, sostanzialmente conservatore, l’Italia non doveva essere in alcun modo forzata. Per il liberalismo berlusconiano rivoluzionario occorreva un’imponente opera di smantellamento dello Stato. Per fare questo, doveva però offendere gli interessi del populismo conservatore; occorrevano tempi lunghi di mediazione politica. Se non ortopedica, almeno pedagogica. Ma qui la componente leadership e la componente “partito” sono andate in conflitto: il leaderismo non ha prodotto istituzioni, partito, nuova classe dirigente; Berlusconi non ha mai avuto la minima intenzione di far crescere la sua creatura-partito fino a renderla indipendente dal suo creatore. Per descrivere questo rapporto, Orsina cita Ovidio: “nec sine te nec tecum vivere possum”.
Tra il 2005 e il 2006, la fine del berlusconismo? A partire dalla sconfitta nella campagna elettorale per le europee, Berlusconi cambia tono: di fronte all’inconcludenza relativa del proprio governo, assume un tono giustificatorio e recriminatorio. Si passa “dal sogno alla paura”. Nella campagna elettorale del 2006, l’accento non è più sul proprio programma, ma sulla paura che tornino gli altri. È, secondo Orsina, questo il periodo della cesura della parabola berlusconiana. L’emulsione si scinde, la componente populista si separa nettamente da quella liberale. Con ciò finisce il berlusconismo, nonostante la vittoria elettorale del 2008, dovuta all’astensionismo asimmetrico, che ha penalizzato di più il centro-sinistra. Il Paese che era pensato spontaneamente liberale diventa “un Paese di m…”.
2006-2011: Berlusconi senza berlusconismo. Per la prima volta nel 2008 i moderati sono diventati più statalisti e i progressisti meno. Ciò poteva costituire il presupposto per la piena trasformazione del berlusconismo in una forza politica moderata, popolare, pragmatica, di establishment. Ma la leadership di Berlusconi, “esaurita la sua funzione propulsiva, ha finito per svolgere una funzione più nichilista che autenticamente rivoluzionaria”. Invece di istituzionalizzare il berlusconismo lo ha de-istituzionalizzato.
Di qui l’emergere di due fratture interne: una ideologica tra liberismo e statalismo, una geografica tra nord liberista e sud statalista. Si sono creati due schieramenti interni al centro-destra: Forza Italia e Lega sul versante settentrionale e liberista; Alleanza nazionale e Centro post-democristiano sul versante meridionale e statalista. La frattura Nord-Sud è storico-politica, è una frattura centrale, non certo creata da Berlusconi, ma che alla fine ha determinato la rottura è stata un’idea di politica e di partito: più tradizionale quella di An e dell’Udc, più nuova, ma più fragile quella leaderistica di Forza Italia. Alla fine, il leader ha scelto di non istituzionalizzarsi e perciò anche di farsi schiacciare, trascinando nelle sue disavventure personali e perciò politiche l’intero partito, benché nel frattempo avesse cambiato nome in quello di Pdl, e ora, più recentemente intenda di nuovo tornare a Forza Italia. La concezione salvifica e finalistica della leadership non ha retto l’urto della realtà, ha alimentato il mito ideologico dell’insostituibilità propria e del proprio clan. Insomma: anche Berlusconi è divenuto antiberlusconiano.
L’epilogo del libro, scritto all’indomani delle elezioni del 2013, è intitolato: “la mosca nella bottiglia”, dove la mosca è l’Italia. Il “fallimento” di Berlusconi lascia il Paese davanti a un vuoto non facilmente colmabile. Orsina interpreta brevemente, alla luce delle categorie della “politica della fede/politica dello scetticismo” e del “platonismo/popperismo”, le ultime vicende: l’emersione del fenomeno Grillo e il governo Monti. Il gruppo parlamentare, i militanti, il programma del movimento grillino sono ispirati da un radicalismo postmoderno, nutrito di anticapitalismo e ambientalismo, venato di utopismo e manicheismo. Grillo ripropone “la politica della fede” e relativa élite politica di nuovo conio, pronta, una volta ripulita la società , ad esercitare su di essa un ferreo controllo. Invece che nuove istituzioni e una democrazia maggioritaria, ripropone la democrazia diretta del web 2.0. Quanto a Monti, egli è l’incarnazione “tra le più limpide e nette” della tradizione ortopedica e pedagogica italiana, che ha tentato di esercitare un “commissariamento tecnocratico” delle istituzioni. Liberale nei contenuti, ma centrato sulla qualità delle élite, non su quella delle istituzioni. Ecco perché non ha saputo né voluto parlare all’elettorato del centro-destra. E si spiega la tenuta di Berlusconi nelle elezioni del 2013, anche se al contempo è confermata l’incapacità della sua leadership di istituzionalizzarsi.
Restano avvolti nella nebbia i destini del cavaliere e del centro-destra. Le recentissime vicende politiche e le fratture interne al Pdl sembrano confermare la fecondità interpretativa del libro. Che fa un bilancio finale dell’eredità del Cavaliere. Egli ha screditato e consumato due opzioni storiche che avrebbero potuto – e forse possono ancora – rappresentare delle risorse preziose per l’Italia: la democrazia maggioritaria bipolare e l’attenuazione della pressione ortopedica e pedagogica dello Stato sulla società. Eppure, non pare esserci altra strada: dotarsi di istituzioni coerenti e funzionanti, che consentano la sostituzione pacifica delle élite, senza l’attesa messianica che ne arrivi al potere una in grado di trasformare magicamente l’Italia reale.
(3 − fine)