Il ’68 è stata una rottura nella storia d’Italia. Su questa affermazione convergono mitologi pro e mitologi versus ’68. I mito-pro parlano di “rivoluzione tradita” e di “occasione perduta” per la grande metamorfosi del Paese. I mito-versus trovano nel ’68 la madre di tutte le aberrazioni del presente. Non voglio nascondermi dietro Salomone, ma solo far notare che ciò che affiora dalle autobiografie e dalla storiografia è un’immagine più complessa delle semplificazioni ideologiche. Sono molteplici i fattori di complessità.
Intanto, non esiste propriamente una generazione del ’68, di cui si possa dire che è “formidabile” oppure “povera”. Nel crogiolo del ’68 arrivano i nati del 1953, che incominciano a frequentare la prima superiore nell’anno scolastico 1967-68. E lì nel Movimento incontrano i trentenni e quelli delle generazioni successive, che si distendono lungo un quindicennio che parte dai nati del 1937 fino al 1952. Io avevo già 24 anni. I quindicenni arrivano con desideri e domande appena vagamente configurati nel corso degli anni ’60, i più “anziani” hanno già costruito delle risposte, hanno già attraversato gli anni ’60. E’ la generazione dei venticinque-trentenni quella che tenta di definire canali di egemonia, dentro cui catturare le giovani generazioni che affluiscono nelle scuole e nelle università. Ovvio che queste generazioni portano responsabilità differenziate, nel bene e nel male.
E neppure l’ideologia del ’68 è riducibile ad unum, come qualcuno tenta oggi di fare artificiosamente. I filoni? Il primo, perché è il più forte, non è quello marxiano, ma quello cattolico. Quasi ignorato dalla vulgata successiva, è quello che influisce di più, con episodi clamorosi, quali il contro-quaresimale di Trento, l’occupazione del Duomo di Parma, l’occupazione del Duomo di Milano, l’occupazione dell’Università cattolica il 16 novembre del 1967. Sullo sfondo stanno interpretazioni radicali delle conclusioni del Concilio Vaticano II, la teologia della morte di Dio, la nascente teologia della liberazione di Padre Gutierrez, Don Milani, Padre Girardi con il suo “Marxismo e Cristianesimo”, l’Isolotto di Firenze. Gutierrez, il teologo peruviano, a Firenze affermerà, con espressione non proprio teologica: “Una Chiesa che non si fa merda (che non diventa povera tra i poveri del mondo, NdR) è una merda di Chiesa”. Dietro si staglia la teologia rivoluzionaria della storia di Gioachino da Fiore. E poi ci sono i marxisti. Ma non certo il marxismo di Togliatti. Piuttosto gli eretici del “marxismo caldo”, che si rifanno a Lukacs e a Ernst Bloch e a Rosa Luxembourg. No al partito leninista, sì ai Consigli degli operai e degli studenti. Per molti che vengono dal cristianesimo rivoluzionario è facilissimo scivolare in questo marxismo all’apparenza libertario. Potere operaio, Lotta continua, Autonomia operaia si innestano su questo ibrido. Anche Comunione e liberazione si spacca, parte vi confluisce. Poi ci sono i marxisti-leninisti, che accusano di revisionismo il Pci togliattiano, e si rifanno alla Cina e alla sua rivoluzione culturale. Quelli del Manifesto la presentano come una grande rivoluzione libertaria dal basso, masse di studenti in Occidente sfilano con il libretto rosso. Solo dopo si scoprirà che è stata un bagno di sangue, un esperimento di feroce comunismo mongolo. Ma c’è anche il marxismo vetero-resistenziale: quello della Resistenza tradita e del fascismo di nuovo incombente. Finirà per fare parzialmente da base alle prime Br. Al partito armato della seconda metà degli anni ’70 farà invece da base ideologica la teoria del marxismo rivoluzionario circa la maturità del comunismo.
Provate a mettere un ventenne in un simile melting pot e ne vedrete di belle. E infatti… Abbiate, giovani o anziani di oggi, un po’ di indulgenza!