In un bell’articolo dedicato a Dante su Repubblica di domenica 28 dicembre, il grande romanziere Walter Siti commentava gli ultimi versi del Paradiso (e quindi di tutta la Commedia dantesca), soffermandosi su un aspetto in particolare. Parlando infatti dell’attacco finale del poema («Ne la profonda e chiara sussistenza / de l’alto lume parvermi tre giri / di tre colori e d’una contenenza; / e l’un da l’altro come iri da iri / parea reflesso, e ‘l terzo parea foco / che quinci e quindi igualmente si spiri»), Siti si ferma a notare un aspetto preciso — e grandioso — della descrizione dantesca: l’impossibilità. Ciò che Dante descrive non è semplicemente inverosimile, è impossibile: perché non è razionalmente immaginabile e misurabile; non è “direttamente percepibile”: «indescrivibili» sono infatti gli «incomprensibili dogmi della religione».
Siti, evidentemente, da molti punti di vista non ha torto: i sensi (le «porte della percezione», come li chiamò William Blake) denuncerebbero questa impossibilità come «contraddittoria»: la ragione, per affermare come vero, per seguire sino in fondo l’intuizione dantesca, dovrebbe quindi rinnegare qualcosa di sé, accettare una parte di fallimento e fingere di credere a un paradosso. Questa parte, questa specificità da sacrificare (espongo, tentativamente, l’implicito del discorso di Siti) sarebbe appunto il principio di non contraddizione. Ma che cos’è questa «impossibilità» di cui parla Dante?
Guardiamo Dante stesso, nei versi immediatamente successivi a quelli citati: «Oh quanto è corto il dire e come fioco / al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi, / è tanto, che non basta a dicer “poco”»: quanto sono incapaci le parole e le categorie della ragione per dire ciò che vidi, al punto che dire “poco” è essa stessa un’immensa riduzione. Dopo aver detto infatti qualcosa di platealmente inconciliabile ai sensi, Dante non cerca di giustificare l’impossibilità dei fatti: non chiede cioè al lettore una “sospensione dell’incredulità”, una fictio narrativa, un “facciamo finta che sia vero”. Descrive invece una inadeguatezza della ragione a descrivere quegli stessi fatti. È una dinamica simile a quella di una rifrazione di luce di cui non si riesce però a guardare direttamente la fonte, ma di cui il riflesso visibile porta tutta la stupefatta dirompenza — della sua origine s’intravedono le fattezze: e la ragione (e con essa il suo strumento d’elezione, la lingua — in questo caso la poesia) rincorre, insegue implacabile il suo obiettivo.
L’equivoco, se c’è, avviene nel credere che la parola possa dire di aver assolto il proprio compito descrittivo esaurendo il suo oggetto: è il grande, tragico tentativo delle Ninfee di Monet, del Palomar di Calvino. Ma l’inquietudine, la drammaticità del “non riuscire” non è la frana di quel tentativo, ma il suo inveramento.
Dante, quando descrive, non vuole descrivere: vuole entrare. E quell’ingresso che la parola permette è, per l’appunto, un’incompiutezza, una perdita di difese, un disarmo pieno d’amore: i sensi, accettando la propria inadeguatezza, sorprendono in atto — finalmente — la propria natura.
Ed è, se ci si pensa, ciò che da sempre commuove di quegli ultimi versi: Dante continuamente dice di non riuscire a descrivere, continuamente dichiara la sconfitta del proprio linguaggio al cospetto della visione di Dio — e non nonostante ma proprio grazie a quella impossibilità, a quella “sconfitta”, intuiamo il suo vedere. Dicendoci di “non riuscire a dire”, Dante ci introduce non ad un paradosso, ma ad un’esperienza, che proprio in quanto comune a tutti, ci percuote: l’esperienza di una ragione che si scopre incompiuta affacciandosi a ciò che la supera — ed è un’incompiutezza, una vertigine che invece è tutta, drammaticamente percepibile nei sensi, nella carne. Noi non vediamo Dio, ma ne intuiamo la grandezza; non vediamo la Trinità, ma ne intravediamo il mistero; non capiamo la gloria della Rosa Mistica, ma riusciamo a percepirne la bellezza, non misuriamo «l’amor che move il sole e l’altre stelle», ma quella vita ci interroga personalmente: e Dante ci accompagna, ci porta per mano a questo spalancamento, a questa sconfitta — una sconfitta che è così simile a un’umiltà, a un cadere in ginocchio, a un abbandono.