Giacomo Matteotti fu sicuramente la vittima più famosa e più illustre della violenza fascista. Non esiste in Italia borgo, città o metropoli che non abbia una via o una piazza intitolate al suo nome. Ed è assolutamente giusto che sia così. Mancava però un documento che completasse la storia della sua morte. Ora lo abbiamo. Si tratta dei due libri-inchiesta che il ricercatore storico Enrico Tiozzo ha dedicato all’assassino del più intransigente difensore della democrazia e della libertà, compiuto il 10 giugno 1924.
Il suo primo volume s’intitolava Matteotti senza aureola. Il politico (Aracne, 2015). Il secondo s’intitola Matteotti senza aureola. Il delitto, ed è pubblicato da Bastogi Libri nella collana “De Monarchia”, diretta da Aldo A. Mola, in unione con il Centro europeo “Giovanni Giolitti” di Dronero per lo studio dello Stato. Premetto che Enrico Tiozzo è professore all’Università di Goteborg (Svezia), autore di importanti studi sull’Italia del Ventennio e di decine di volumi tra cui La letteratura italiana e il Premio Nobel.
Il succo della sua imponente inchiesta storica è la definitiva e incontestabile dimostrazione che Matteotti non fu ucciso per ordine di Mussolini, cosa alla quale non hanno mai creduto neppure i figli del famoso uomo politico socialista; semmai, fu ucciso per il tentativo di mettere il suo cadavere sul cammino del capo del fascismo. Tesi già sostenuta nel primo dopoguerra dal grande giornalista Carlo Silvestri — che pure era stato, all’indomani del delitto, tra i più tenaci accusatori di Mussolini, pagando questa sua convinzione con anni di confino —, autore del fondamentale (e purtroppo dimenticato) libro Matteotti, Mussolini e il dramma italiano. Ma vengo al lavoro di Enrico Tiozzo.
In quattordici, documentatissimi capitoli che occupano le oltre settecento pagine del suo secondo volume, l’Autore pone una pietra definitiva sulla montagna di ricostruzioni più o meno fantasiose il cui obiettivo era soltanto quello di accusare Mussolini di essere stato il mandante dell’assassinio di Matteotti. E lo fa sulla base di una valanga di documenti che gli consentono di porre in evidenza i troppi lati oscuri delle inchieste giudiziarie e dei processi seguiti all’uccisione di Matteotti. A cominciare dalla disastrosa istruttoria condotta dai due magistrati romani incaricati di indagare sul grave crimine, che, come primo atto del loro lavoro, andarono ad inginocchiarsi sul luogo del sequestro, dimostrando in tal modo la loro passione politica, che si manifestò peraltro con i loro ripetuti, ma falliti tentativi di incriminare Mussolini.
“Chi diede il mandato del sequestro, probabilmente Marinelli — scrive Tiozzo —, era certamente uno sprovveduto oltreché un criminale. Il resto fu una conseguenza dell’impreparazione e della dabbenaggine dei sequestratori, una manciata di balordi e piccoli delinquenti semianalfabeti, composta da un fabbro (Viola), un falegname (Volpi), un macellaio (Poveromo) e un truffatore (Panzeri), che gli unici due complici potenzialmente in grado di ragionare (Dùmini e Malacria) non seppero gestire”.
E ancora: “Matteotti aveva una circonferenza toracica corrispondente a quelle di un ragazzo di 11-12 anni. La cosa non comporta necessariamente problemi di salute per un adulto alto un metro e 70, ma bisogna riconoscere che Matteotti aveva una struttura fisica eccezionalmente esile. Un pugno sferrato con piena forza da un individuo molto robusto (pensiamo a Malacria) avrebbe causato su un simile torace degli effetti certamente devastanti. E il pugno sicuramente ci fu, anzi ce ne furono più di uno, nella stessa zona del corpo e nello spazio di pochi secondi”.
Più avanti: “Il fatto che Matteotti avesse il torace di un ragazzo dodicenne, che avesse sofferto di tubercolosi, diminuisce forse in qualche misura le colpe dei suoi assalitori? Certamente no. Ma il tenere nascosti questi fatti non contribuisce certo a tracciare un quadro oggettivo e completo della tragica vicenda che costò la vita al deputato socialista”.
Nella sua ampia, articolata ed esaustiva prefazione al volume, Aldo A. Mola esamina a fondo il ruolo di Matteotti nella politica italiana di quegli anni. Difficile dargli torto quando scrive che “Matteotti non aveva la preparazione dottrinale né il carisma necessari per raccogliere le opposizioni in un fronte comune. Inviso ai comunisti, poco gradito dai liberali, schivato dai democratici, lontano dai repubblicani, con modesto seguito nel suo stesso partito, solo la sua tristissima morte ne fece l’icona dell’antifascismo”. Mola constata poi come la sterminata documentazione raccolta ed esaminata da Tiozzo permetta di escludere in modo assoluto che si sia trattato di un omicidio premeditato. Il fatto che l’aggressione fosse stata compiuta sotto gli occhi di vari testimoni, servendosi di una vistosissima automobile, rivela una condotta da perfetti cretini, non certo da scafati delinquenti politici.
Condivisibile dunque la conclusione di Tiozzo, secondo cui fu sicuramente un “omicidio volontario”, se non altro per la violenza ai danni dell’aggredito, ma non si trattò di un omicidio premeditato.
Alla luce di questi elementi, va riletto anche il celebre discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925, che aprì la strada alla dittatura. Mola ricorda queste parole pronunciate dal futuro duce in quell’occasione: “Come potevo pensare, senza essere colpito da morbosa follia, non dico solo di far commettere un delitto, ma nemmeno il più tenue, il più ridicolo sfregio a quell’avversario che io stimavo perché aveva un certo coraggio, che rassomigliava qualche volta al mio coraggio e alla mia ostinatezza nel sostenere le mie tesi?”.
Così conclude Mola: “Dùmini e i suoi complici ammazzarono Matteotti da criminali comuni anziché da ‘squadristi’ di un partito saldamente al governo, forte di due terzi dei deputati e della benevolenza del Senato. Mussolini non aveva affatto bisogno di assassinare un oppositore in più. Tuttavia, il fascismo non si liberò più del suo spettro, perché aveva comunque a carico gli esecutori del crimine”.