“Tutti quelli che abbiteno da quelle parte dicheno: Ecco la Sperduta!“: ogni giorno, zona Esquilino, alle 21 in punto, la voce inconfondibile della “Sperduta”, la campana di Santa Maria Maggiore, riecheggia nella sera romana a ricordare la bella tradizione da cui nasce. Una delle versioni racconta di una giovane andata in pellegrinaggio a Roma che, complice la pioggia e una notte scura scura, aveva smarrito la strada. “Se n’annava dunque a ttastoni”, parola del poeta romanesco Giggi Zanazzo, “i’ tramezzo a la campagna, sola com’un cane”, terrorizzata dal nero che avanzava e, minuto dopo minuto, trangugiava, vorace, la speranza di trovare la via. Tutta impaurita, “ccor pericolo, a bbon bisogno, d’èsse’ sgrassata e assassinata”, le affiorò sulle labbra, come ultimo scampolo di coscienza, una preghiera alla Madonna. Subito, da lontano lontano, le giunse all’orecchio come un suono di campana. “Appizzò l’orecchie, se fece coraggio, e cco’ l’annà ‘a le tacche a le tacche appresso ar sôno che ssentiva”, quasi con ritrovata baldanza, arrivò a Ponte Lungo, poi passò porta San Giovanni, attraversò la piazza, imboccò via Merulana, a quel tempo tutta vigne e orti, e, sempre guidata dal rintocco della campana, arrivò fino al ventre di quel suono amico: la basilica di Santa Maria Maggiore. E ritrovò la strada.
Da quella notte, tutte le sere, la “Sperduta” effonde il suo richiamo al popolo romano. Di voce amica in voce amica, non si può non pensare al memorabile sussurro della terra lombarda: “L’Adda ha buona voce; e, quando le sarò vicino, non ho più bisogno di chi me l’insegni”. È Renzo a parlare tra sé e sé nella sua notte, la più terribile, ma forse anche la più grande della sua vita: in fuga da quella Milano in cui aveva cercato protezione per trovare invece la sommossa, l’inganno, l’arresto, corre, alla ricerca dell’Adda, seguendo il quale potrebbe trovar riparo nel Bergamasco. Si inoltra nel fitto del bosco, dove la paura di essere inseguito e scoperto lo serra, “le tenebre, la solitudine, la stanchezza cresciuta, e ormai dolorosa” lo avviliscono, i pensieri — la barba di fra Cristoforo che “chissà che direbbe se sapesse…”, la treccia di Lucia così lontana — lo pungono. E di “quella benedetta voce dell’Adda”, niente. A un certo punto, quando sta per essere soverchiato da quell'”orrore indefinito”, quando è “per perdersi affatto”, nel sospeso silenzio del bosco, avverte “un rumore, un mormorìo, un mormorìo d’acqua corrente. Sta in orecchi; n’è certo; esclama: — è l’Adda!”. Che gratitudine in Renzo per quelle braccia della natura protese verso di lui: troppo umana per essere solo natura, troppo umana per non meritare l’appellativo di “amico”, “fratello”, “salvatore”.
Che la vita sia piena di voci amiche. Che, nel bel mezzo della notte e del fitto bosco — non fuori, non dopo, non oltre, ma lì, nel mezzo — ci accompagnino lievi. Che, “dietro all’amico rumore” possiamo sentire la stanchezza scomparire, il polso tornare, “il sangue scorrer libero e tepido per tutte le vene”, possiamo sentir “crescer la fiducia de’ pensieri, e svanire in gran parte quell’incertezza e gravità delle cose”. E, “dietro all’amico rumore”, non esitare “a internarsi sempre più nel bosco”.