Lo sciopero che ha interessato il mondo della scuola il 30 ottobre, verificatosi il giorno dopo l’approvazione definitiva da parte del Senato della conversione in legge del decreto Gelmini, può segnare un punto di non ritorno se non si recuperano immediatamente, da parte della componente docenti, da una parte, e dei responsabili della politica scolastica, dall’altra, le ragioni per ri-costruire un clima di fiducia reciproca e di lavoro su obiettivi comuni.
Questo sciopero in realtà ha spaccato in due il mondo della scuola, come evidenziano anche le percentuali degli aderenti alla protesta sindacale: grosso modo il 57% degli insegnanti ha scelto di non entrare in classe, mentre il 43% lo ha fatto (dati forniti da Viale Trastevere). Se la bilancia sembra pendere decisamente da un lato (gli organizzatori delle proteste rivendicano addirittura il 70% di insegnanti che hanno incrociato le braccia), non bisogna dimenticare che l’astensione dal lavoro era proclamata dall’intero mondo sindacale e che non sono rari gli episodi di scuole materne ed elementari chiuse ad arte (con la benevola complicità dei rispettivi dirigenti) per non lasciare alternative a chi il decreto Gelmini, lungi dall’appoggiarlo a scatola chiusa, quantomeno voleva discuterlo.
Al di là dei singoli episodi, che andranno esaminati con attenzione per capire cosa sia successo, le fratture interne alla componente docente offrono la fotografia di una autoreferenzialità che la scuola italiana fa fatica a superare.
È come se nella scuola si combattesse una battaglia tutta ideologica e tutta interna al corpo docente, dove gli illuminati pretendono di dettare legge nei confronti di presunti tradizionalisti. Emblematica, nella scuola primaria, la difesa acritica dell’esistente per cui parole come “modulo” (cioè i tre insegnanti su due classi) o “tempo pieno” sono sbandierate senza la minima disponibilità ad una riflessione in chiave storica e pedagogica sugli effettivi benefici apportati dalla “rivoluzione degli anni ’90” al mondo della scuola elementare italiana.
Ma è tutto l’universo scolastico che dovrebbe essere aiutato a crescere nella consapevolezza degli obiettivi che intende realmente raggiungere.
A questo proposito, nella prospettiva di recuperare un terreno comune di lavoro che impegni tutti gli attori del processo educativo, il convegno dell’associazione Diesse (Didattica e Innovazione Scolastica) svoltosi lo scorso 24 ottobre a Roma, alla presenza del Ministro Gelmini, ha offerto alcune piste programmatiche interessanti.
Le relazioni scientifiche (Ballio, Ramazza, Nicoli, Crema: cfr. www.diesse.org) hanno insistito sulla opportunità che la scuola si concentri sugli obiettivi che intende realizzare, piuttosto che su dinamiche interne legate alla riproduzione burocratica di meccanismi didattici o gestionali.
Il mondo sta mutando alla svelta e il mercato del lavoro (Ramazza) risente di una situazione determinata dalla progressiva impossibilità di fare fronte al saldo negativo di 200/300 mila posti di lavoro che ogni anno sono lasciati liberi e non si riescono a sostituire, se non con la forza lavoro straniera. Ma i giovani italiani non si adeguano alla realtà dei lavori in cui “ci si sporca le mani” e da noi l’idraulico Joe che in America rischia di far vincere le elezioni ad Obama e a McCain è quasi scomparso.
D’altra parte una oculata gestione delle pratiche di orientamento messe in atto assieme da scuola e università può consentire di individuare potenzialità e risorse dei giovani insospettabili.
Dice il falso (sostiene Ballio) chi afferma che tutti i giovani sono incapaci e impreparati. I giovani sono capaci di reagire, di studiare e di prepararsi. E’ sufficiente indicare loro un obbiettivo chiaro e fornire gli strumenti per raggiungerlo.
Da questo punto di vista vale la pena investire in orientamento, di cui gli insegnanti (di scuola superiore: ma l’orientamento inizia ben prima) sono la leva decisiva.
L’orientamento è l’altra faccia dell’apprendimento e questo nesso inscindibile si verifica più facilmente (secondo Nicoli) se la scuola e la classe sono un luogo ricco di relazioni che risveglia l’umanità dei giovani, sollecitandone il desiderio di sapere.
Emerge potentemente l’idea della scuola come una comunità di apprendimento, i cui membri sono liberi di dotarsi di metodi diversi per arrivare ad uno scopo comune: la consegna agli alunni di criteri di giudizio da trafficare nell’impatto con la realtà che cambia e si presenta sempre dissimile da come appare.
E non si tratta di una formula vuota, ma di esperienze già messe in atto in molteplici situazioni di scuole di qualità o di compagnie educative tra alunni e insegnanti.
È attorno a questi esempi già esistenti che dovrà essere riallacciato il dialogo tra centro e periferia nell’immediato. In caso contrario la scuola italiana rischia di smarrirsi definitivamente.