“Mai, come nell’attuale contesto culturale, il concetto di pace è apparso così poco credibile e impotente”. Così si apre la presentazione di Francesca Bonicalzi al volume da lei stessa curato Pensare la pace: il legame imprendibile (Jaca Book, 2011). Come non condividere tale giudizio in un periodo storico in cui la zona grigia di significati compresi tra pace e guerra (guerra preventiva, intervento umanitario, peace keeping/enforcing ecc.) si allarga sempre di più generando confusione e apatia?
Ecco perché ripensare la pace è un compito urgente. E occorre perseguirlo correndo il rischio di apparire “inattuali”, vale a dire incapaci di fornire soluzioni prêt-à-porter come vorrebbe l’opinione pubblica (se non si condivide tale prospettiva è meglio interrompere la lettura e rivolgersi a qualche filosofo francese contemporaneo assai à la page). L’inattualità è per il pensiero il prezzo da pagare per non voler oggettivare la pace, per evitare di pensarla come qualcosa di producibile attraverso una buona tecnica politica o militare che merita certo tutto il nostro impegno, ma che in fondo ci tocca solo esteriormente. È del resto questo uno degli assunti maggiormente perniciosi della modernità: che non si diano problemi che non siano risolvibili tecnicamente, una volta in possesso dei necessari strumenti e risorse.
In altri termini l’inattualità del pensiero è solo un altro nome della sua essenziale criticità. Ma il pensatore – nel volume non troviamo solo filosofi ma anche storici e psicoanalisti -f possiede una capacità critica non perché parla da un luogo esterno alla società in cui vive, ma perché stimola questa a cogliere le tensioni e le contraddizioni che la abitano, a mostrare l’incoerenza tra gli effetti dei discorsi e delle azioni e gli ideali cui questi fanno riferimento. Si tratta di una critica dell’ideologia, vale a dire della “falsa coscienza” che anima la discussione pubblica.
Gli autori di Pensare la pace non praticano tale critica con il tono petulante di tanti opinion makers. Si tratta innanzitutto di mostrare l’atto di un pensare la pace come pensare in pace, evitando di identificare la causa della guerra con nemici ideali o concreti ma comunque fuori di sé – mossa ideologica che poi conduce a giustificare la propria guerra come azione difensiva.
Un tratto comune a tutti i contributi del volume è quello di soffermarsi sul logos come origine della pace. Il logos, inteso secondo la sua estensione semantica (ragione, pensiero, parola, discorso, giudizio), è ciò che costituisce il legame tra tutte le cose e quindi anche tra gli esseri umani. La questione della pace coincide con la questione della possibilità di questo legame: com’è possibile che i molti, diversi tra di loro, stiano insieme? come mai il mondo tutto sommato tiene, cioè è un cosmo e non è un caos? In termini filosofici si tratta del classico interrogativo in merito all’uno e ai molti, all’identico e al diverso.
Di fronte a tale questione l’uomo contemporaneo – choccato dai sommovimenti epocali tipici della globalizzazione (dai repentini cambiamenti geopolitici alle migrazioni dei popoli) – assume più o meno consapevolmente due punti di vista. O cerca di salvaguardare la purezza dell’identità o glorifica la diversità. Si tratta di due prospettive illusorie: non esistono identità pure – e ciò è talmente vero che per farle esistere occorre inventarle attraverso miti e riti dal valore ideologico e strumentale; non esistono diversità assolute, altrimenti non potrebbero nemmeno incontrarsi e riconoscersi come tali.
Un filo che collega gli autori del volume è quello di cogliere in atto, attraverso prospettive e metodologie diverse, il gioco dell’identità e della differenza nella costituzione e nella decostruzione delle soggettività. La differenza è all’opera nell’identità stessa: nessuno può onestamente dire di essere padrone delle proprie parole, di possederne il senso, non più di quanto possa dire di essere padrone del proprio corpo, che non è stato lui a modellare. L’io non può negare di cogliere “dentro” di sé un fattore che opera in una modalità che eccede la consapevolezza che l’io ne può avere. Il fenomeno più eclatante per noi moderni è quello della responsabilità: Il mio sentirmi responsabile per qualcosa implica che ci sia qualcuno che mi interpella, anche quando sono “solo”.
La prospettiva che anima questo volume è appunto quella di chi scommette sull’evidenza fenomenologica di esperienze di questo tipo, spesso incorporata e veicolata dalle culture di origine religiosa dei popoli che si incontrano e scontrano. In tale dislivello, che appartiene a ogni essere umano in quanto “animale che possiede il logos”, tra il proprio punto di vista e la verità che agisce dentro ognuno di noi sta la risorsa principale che rende possibile un dialogo di pace. In altri termini, senza il riconoscimento di una verità che origina e trascende i vari punti di vista – di cui è possibile dirsi “figli” – non si dà alcun criterio e fine del dialogo stesso.