Il fuoco accanito e vorace che, nella conclusione del Nome della rosa, aggredisce l’abbazia medievale ricca di libri preziosi, trasformando quello scrigno del sapere in un enorme rogo e quindi in cenere e rottami, incarna, per Umberto Eco, il pericolo sempre in agguato che accompagna i nostri passi. E cioè, il demone del fondamentalismo e dell’autoritarismo; che incombe sulla nostra civiltà e preme per seminare devastazione, per infliggere la sua apocalisse senza prospettiva di cieli e terra nuovi. L’autore del più fortunato best seller di qualità degli ultimi decenni (anzi l’inventore riconosciuto del best seller di qualità) ha costruito la trama del suo romanzo a conforto di questo assunto: la nostra conoscenza e le nostre libere mosse sono insidiate da chi, in nome di una Verità intransigente e cupa, pretende di tenerci nello stato di minorità, di ridurre in catene la nostra autonomia, e poiché non riesce in questa pretesa, risponde all’insorgere della libertà con cieca violenza, disposto a rimanere lui stesso dilaniato e travolto, mentre trascina tutti nella catastrofe punitiva che ha preparato. La metafora è efficace. Tradisce però, al di là dell’intenzione, un’altra e più profonda paura; non solo verso l’oppressione del pensiero unico, ma verso l’evento stesso, percepito in termini, appunto, di agguato, contro il quale è fin troppo fragile l’unica barriera a disposizione, quella della cultura che i testi alimentano e promuovono.
Filosofo e semiologo corteggiato dalle accademie, membro a pieno titolo dei circoli intellettuali più esclusivi dentro e fuori i confini nazionali, Umberto Eco deve al Nome della rosa la sua notorietà presso il grande pubblico. La formula era in effetti indovinata: trasferire nel romanzo lo stile accattivante del giornalismo, mescolando spunti pensosi e gradevoli arguzie. Sulla stessa falsariga, Eco ha confezionato instancabilmente ulteriori prodotti narrativi, senza ottenere risultati paragonabili a quel primo, fortunato exploit. Pagine intriganti si annidano comunque anche in quei romanzi meno felici, che pochi ormai si prendevano la briga di leggere da cima a fondo, anche quando, per soggezione all’industria culturale, li acquistavano tempestivamente. E forse, una delle chiavi per entrare nell’universo di Eco è uno scorcio annidato nella Misteriosa fiamma della regina Loana, libro di scarso peso e successo anche minore. Il protagonista, un liceale perdutamente innamorato (come di prammatica) di una compagna di scuola e incapace a lungo di dichiararsi per paralizzante timidezza (altro ingrediente immancabile), prende un bel giorno il coraggio a due mani e si fa trovare nell’androne del palazzo di lei; ma davanti a lei, accampa una scusa e si dilegua. Esporsi al rischio di un rifiuto? Subire delusione e derisione? «Tacendo, invece, avevo conservato tutto quel che già avevo e non avevo perso nulla». Nella sua apparente gracilità, questo episodio rosa, così distante dal timbro nero e gotico che altre volte Eco predilige, lascia trapelare un sospetto verso lo stesso accadere della bellezza; come se la fiamma da temere fosse in definitiva quella che un incontro positivo contagia. Come credere a una promessa che forse non può essere mantenuta?
Curiosa diffidenza in un intellettuale che ha dedicato all’estetica energie ingenti, muovendo in quel settore i primi passi in compagnia di Tommaso d’Aquino. Uno dei primi allori di Eco, giovane indagatore dell’età di mezzo, fu appunto dovuto alla sua felice rivendicazione del pensiero estetico di Tommaso, che una miope tradizione di studi riteneva fragile o addirittura insussistente. E diversi altri meriti Eco doveva maturare nelle successive ricerche sull’arte del medioevo e della modernità, a contatto coi capolavori del passato e con le più aggiornate sperimentazioni contemporanee. Quella provocazione, evidentemente, non lo lasciava in pace.
Chi si trovi a sfogliare il volumetto che raccoglie il dialogo epistolare tra Eco e il cardinal Martini, In cosa crede chi non crede, registrerà, all’interno delle lettere di Eco, un attrito singolare. Da una parte, Eco attesta la nobiltà del messaggio filosofico di Spinoza, col suo Dio né trascendente né personale, grande e unica sostanza cosmica, destinata ad assorbire ogni individuo; dall’altra, lascia emergere un’esigenza che muove in una direzione ben diversa. «Noi (così come non riusciamo a vivere senza mangiare o senza dormire) non riusciamo a capire chi siamo senza lo sguardo e la risposta dell’altro. E si potrebbe morire o impazzire se si vivesse in una comunità in cui sistematicamente tutti avessero deciso di non guardarci mai e di comportarsi come se non esistessimo». Tra il bisogno dello sguardo e la rassegnazione alla sua temuta menzogna o precarietà si è giocata una fetta sostanziosa dell’attività intensa e poliedrica di Umberto Eco; con cui abbiamo solo cominciato a fare i conti.